Non è facile, è vero. Nel complicato risiko dei divieti qualche fronte viene lasciato scoperto. Sguarnito. Ed è lì che monta l’attacco. È da quella breccia che si insinuano gli speculatori della politica, i facinorosi delle piazze, gli adepti della violenza a prescindere. L’Italia che cerca disperatamente di non ripiombare in un mortale lockdown è una diga che comincia a scricchiolare. Sotto la pressione di un virus che non demorde e di un malcontento diffuso – reale o strumentale che sia – prossimo alla tracimazione. L’incertezza delle regole che cambiano di giorno in giorno, di regione in regione, di città in città. L’ondivago annaspamento di un governo stretto fra opposizioni pronte a fiondarsi fameliche sulla preda in difficolta, fette di maggioranza storicamente scomode e mai acquiescenti, categorie economiche accecate da un presente stoppato e un futuro nebuloso e scienziati tutt’altro che inteneriti dalla - per loro solo presunta - severità dei nuovi divieti. Il mix può risultare letale, in una fase storica in cui si sta cercando di rendere meno letale un nemico, a ieri sconosciuto e ad oggi invincibile. Che dovrebbe accomunare e unire. E che invece divide et impera. Le piazze sono magma ribollente. Attenzione, però. Le vetrine del lusso distrutte e saccheggiate a Torino, i 13 minorenni fra i 28 fermati a Milano, la bomba carta a Catania, i vessilli di Forza Nuova a Palermo sono segnali chiarissimi: il fronte degli scontenti dell’ultimo dpcm ha maglie troppo larghe per riuscire a filtrare il morbo del disordine. Precostituito, improvvisato o politicizzato che sia. E così finisce nel calderone della censura anche chi prova a urlare la propria paura per sé, le proprie famiglie o i propri dipendenti, ma può emettere solo un rantolo soffocato dai bagordi e dalla violenza. Le mafie, dicono. Ci sono le mafie dietro. Una castroneria concettuale: la criminalità organizzata gongola davanti a serrate come quelle che stanno spappolando bilanci familiari, conti aziendali e Pil globali. È terreno di conquista facile facile. Sarà più probabile trovare un mafioso che plaude al lockdown piuttosto che uno che lo contesta davanti ai palazzi del potere. È vero, la scacchiera dei nuovi divieti non appare né coerente, né omogenea. L’impossibilità – ad alta percentuale di incapacità - di garantire controlli adeguati genera provvedimenti che finiscono per colpire indiscriminatamente tutti. Come buttare via l’acqua sporca con il bambino dentro. Si tengono chiusi cinema e teatri – fra i più attenti in assoluto finora al rispetto delle norme anti Covid - sol perché resta la boriosa convinzione della cultura come effimero. Falso due volte: perché essa non è un concetto astratto e avulso dalla formazione e dall’educazione etica e sociale di un individuo e di una intera collettività; perché non è un pegno chiesto alle sole elite delle star – non prossime alla fame - ma soprattutto al grande sottobosco di lavoratori dietro le quinte che hanno identici sacrosanti diritti (visto che sono chiamati ad analoghi doveri) di ogni altra categoria produttiva, nessuna esclusa. Bar, ristoranti e pizzerie sprangati alle 18 – col solo pertugio d’ossigeno dell’asporto o del domicilio – pagano in tantissimi le irresponsabilità di tanti. Nè sono più colpevoli di chi detta regole e non sa farle rispettare. Così come poco – anzi nulla - si è tenuto conto di specificità territoriali, sia di natura sanitaria che economica o imprenditoriale, delegando alle Regioni solo la possibilità di restrizioni ulteriori. Tre dpcm in tre settimane significano due cose. La prima: il virus avanza veloce, velocissimo. La seconda: si va avanti a tentativi, si naviga a vista per cercare alchemiche formule di contenimento. Le opposizioni politiche fanno il loro, additando la cosa, almeno fin quando non cedono all’incontenibile tentazione di soffiare sul fuoco della ribellione. Meno fanno il loro invece le retrovie di maggioranza, che non vedono l’ora di dopare le proprie irrisorie percentuali. Sbagliando però tempi, modi e contesti. Mentre si dibatte e decide su politiche di ristoro che – apprezzabili nelle intenzioni, anche se deficitarie sul fronte dei beneficiari – devono prima snellirsi nelle solite procedure capestro e poi concretizzarsi in tempi immediati per dipanare effetti e mitigare malcontento. Se vogliamo davvero un Natale almeno pacifico (sereno difficile, felice impossibile) si lavori a questo. Nel frattempo ci si attorciglia in una dedalica superfetazione di divieti difficili da mandare a memoria. A Palermo, per esempio. Dove al bar o al ristorante si può andare fino alle 18, in centro non si può guidare senza pass fino alle 20 (il venerdì’ e il sabato fino alle 24, ma dalla settimana prossima fino alle 20 e poi dopo le 23 e fino alle 6 del mattino), nei week end ci si può incontrare per strada e sostare per una chiacchierata solo fino alle 21 dalla Statua alla Stazione, dalle 23 alle 5 tutti a casa e la domenica in giro per acquisti solo fino alle 14. Chiarissimo, no? Alcuni di questi divieti – strettamente legati alla pandemia - scadono in parte il 13 e in parte il 24 novembre. Altri – di natura strutturale - sarebbe opportuno in questa fase almeno sospenderli (vero sindaco e assessore al traffico?). È indubbio, la lotta al Covid ha bisogno del contributo indispensabile di tutti, nessuno escluso. Ma davvero a queste condizioni? E con questo clima? Lo abbiamo detto nei giorni scorsi e lo ribadiamo: servono ulteriori sacrifici, ma non si possono imporre ulteriori rinunce. Si provi a tutelare i primi. Senza rifugiarsi nelle seconde.