Fummo, nei secoli dell’italica grandeur, un popolo di santi, poeti e navigatori. Poi, fra un mondiale vinto e uno perso, ci siamo riciclati in popolo di commissari tecnici, accomodati in poltrona. Oggi, che viviamo tempi ben più grami, ci si sta repentinamente convertendo in un popolaccio di medici e ingegneri. Non serve più una laurea specialistica, che volgarità. Bastano uno smartphone e una connessione internet. E possiamo allegramente dissertare di vaccini e Tav, alla stessa stregua di un rigore al Var o un televoto per Sanremo. Dunque, se ormai uno vale uno nell’epoca dei troll e dei videoselfie a tanto al like, perché non dovrebbe l’allegro dibattito valicare le auliche soglie parlamentari-ministeriali e affidarne l’esito alla disfida politica-ideologica foraggiata dal consenso di un’Italia in perenne campagna elettorale? L’oggettività di un valore assoluto - tecnico, scientifico, funzionale, sanitario, strutturale che sia - è ormai derubricata a parere di parte, piegato al volere e al desiderio del committente di turno. Scatenandone i rispettivi schieramenti ultras, azionati a comando. Al punto che ci conforta almeno – coltiviamo l’arte dell’accontentarci – sapere che il Movimento 5 Stelle non sembra per fortuna intenzionato in questi casi ad affidarsi alla sua adorata piattaforma Rousseau. Stavolta la coperta di Linus delle brigate pentastellate resterà piegata in un cassetto, vivaddio. La chiamano democrazia partecipativa. Intanto l’onnivoro Salvini stuzzica il ministro Grillo e gli chiede di chiudere un occhio – anzi entrambi – sui bambini non vaccinati nelle scuole di un Paese che sta drammaticamente riscoprendo e patendo malattie che sembravano definitivamente debellate. E pazienza se praticamente l’intera classe medica mondiale giura sulla bontà della profilassi. I no vax votano. E i voti si contano, mica si pesano. La chiamano democrazia rappresentativa. Ma ciò che rischia davvero di mandare a carte quarantotto il governo del Paese è quel benedetto buco fra Italia e Francia – nel sottosuolo, non nei rapporti già seriamente compromessi - che dovrebbe far viaggiare mezzi, persone e merci più velocemente e agevolmente, spingendo l’economia zoppicante. È oggettivamente negabile? Riteniamo di no. E però ci sono gli interessi di parte, i preconcetti, i pregiudizi, i residenti, gli ambientalisti, i romantici, i nostalgici, i fanatici del no a prescindere. E le analisi costi-benefici, cause-effetti, vantaggi-svantaggi, meglio-peggio, sì-no, gettate a casaccio sul tavolo del confronto come bastoncini dello Shangai dal paladino dell’uno o dell’altra sponda (elettorale, ovviamente). L’interesse supremo e oggettivo dell’intera collettività? Lo stabilirà il più forte. La chiamano democrazia del consenso. La Tav è ormai diventata il primo serio spartiacque a cui si approccia questo ibrido esecutivo gialloverde. Adagiato su una serie di compromessi (contratto di governo, lo chiamano) finora capaci di non far perdere la rotta, pur nel tempestoso mare di una negativa contingenza socio-economica, certificata in recessione da analisti di professione e rilevatori istituzionali. Puntualmente irrisi e sbertucciati da chi, al grido di «si candidino, si facciano eleggere e poi ne riparliamo», si ritiene depositario della Verità. La chiamano democrazia elettorale. Al sunto: Di Maio & c. hanno ingoiato i bocconi indigesti Ilva e Tap ma sanno che se dovessero ingurgitare pure la polpetta Tav si ritroverebbero sul fascio di legname acceso dai santi inquisitori del movimento; Salvini, a cui l’operoso Nord non riesce a perdonare il reddito di cittadinanza dato in pasto all’elettorato grillino a forte trazione meridionale, sa che se dovesse rinunciare all’alta velocità finirebbe idealmente sotto gli auto-articolati del mondo imprenditoriale postpadano, ad oggi zoccolo duro del suo consenso. L’affannoso, ai limiti del commovente, esercizio di equilibrismo politico-diplomatico messo in atto ieri in conferenza stampa dal premier Conte, per non urtare in alcun modo la suscettibilità delle due anime governative, certifica che il tunnel ad alta velocità è fermo in un vicolo cieco. Insomma, le posizioni restano distanti e si cerca di prendere ancora tempo. E però è venuto il momento di scegliere. Ballano una vagonata di milioni, ma soprattutto l’adesione a un processo generale di sviluppo transnazionale a cui l’Italia deve decidere se vale o meno la pena di partecipare. Il coraggio di un sì o di un no. Non c’è alternativa a una posizione chiara. Per il bene di tutti. E nonostante il volere di tanti. Si chiama democrazia – anzi responsabilità - di governo.