La metafora delle mele marce è buona per ogni stagione, ogni situazione, ogni categoria. Figurarsi se non può essere rispolverata anche nel caso di un’inchiesta che investe e travolge chi le inchieste è chiamato a farle o a trasformarle in giudizi, in sentenze. È necessario, indispensabile, praticamente salvifico. L’alternativa è l’abbattimento dell’ultimo – e neanche più tanto solido – baluardo che separa la certezza del diritto/dovere alla legalità, dalla giungla medievale del caos sociale.
L’indagine partita un anno fa con il disvelamento del cosiddetto Sistema Siracusa e che oggi sta facendo tremare i vertici – e con essi le fondamenta – della giustizia amministrativa italiana, aggiunge oggi benzina sul fuoco di chi tratteggia il livello raggiunto da un Paese che, secondo la più recente classifica di Transparency International, spicca nella graduatoria delle nazioni più corrotte, con un indice di percezione del livello di corruzione di istituzioni e politici dell' 85%. Una percentuale già di per sé enorme e che secondo l'ultimo rapporto Ocse si spinge fino al 90%. È vero che, come ha sottolineato più volte il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, il fenomeno non può essere misurato oggettivamente in nessun modo, col rischio dunque di cadere nella banalizzazione. Ma sono altrettanto vere due cose.
La prima: tutto ciò ha un prezzo. Secondo la Banca mondiale, può incidere fino a un punto di Pil ogni anno, perché gli indici statistici finiscono per allontanare imprese ed investitori stranieri dai Paesi che stanno ai livelli più bassi delle classifiche internazionali. E l’Italia di certo non svetta per virtuosità. Quindi se banale e imperfetto è il metodo che determina la percezione, concreto e cospicuo è il danno che essa produce.
La seconda: quale ruolo occupa la magistratura? E che responsabilità ha? Molti analisti sottolineano che la percezione del fenomeno corruttivo è molto più alta laddove più alta è l’azione di prevenzione e repressione. Cioè, più indagini si fanno, più notizie circolano su fatti corruttivi (o presunti tali), più si ritiene che la corruzione sia diffusa. E siccome in Italia l'azione penale è obbligatoria e la magistratura è (è?) indipendente, ogni notizia di reato che finisce in un fascicolo processuale fa crescere i parametri percettivi. Anche se poi parte di quelle inchieste sfocia in un nulla di fatto e le accuse si rivelano del tutto inconsistenti. Se poi protagonista in negativo è proprio la magistratura stessa, soprattutto se con alcune delle sue frange più esposte, allora ecco che l’intero sistema collassa. E fa davvero ritenere a nove italiani su dieci che questo è un Paese corrotto. Ovunque.
Si fa poca fatica ormai a considerare corrotti, corruttori e corruttibili politici, burocrati, imprenditori, professionisti. Qualche remora ancora c’è ad accettare e digerire che nel ganglio del malaffare finiscano anche i magistrati. Per quella visione, forse un po’ ingenua e di certo parecchio inconsistente, del giudice senza macchia e senza paura cui affidare – unico e solo - la difesa delle leggi che regolano la vita di una comunità. Uno stereotipo che è miseramente imploso. E che speriamo riesca almeno a trascinarsi dietro, nel suo declino morale, anche il concetto – dispotico e antidemocratico – di una supposta dovuta impunibilità della categoria. Un velo infetto dietro cui qualcuno ha costruito fortune (proprie e altrui) e determinato disgrazie (solo altrui).
Un magistrato corrotto o incapace che paga personalmente e penalmente e civilmente per i suoi torti o i suoi errori è garanzia di un sistema di diritto che – pur malato e compromesso - non conosce eccezioni e aree franche. E che rende perfino più sopportabile l’idea, diffusa nella percezione e acclarata nei fatti, che tutti possono corrompere tutti. Anche quelli che indossano una toga. Chiamati non solo a giudicare. Ma, se serve e tutte le volte che serve, ad essere giudicati.
Scopri di più nell’edizione digitale
Per leggere tutto acquista il quotidiano o scarica la versione digitale.
Caricamento commenti
Commenta la notizia