Nove anni. Buttati a mare. Anzi nel fango assassino. Delle inettitudini e delle indolenze, delle incapacità e delle connivenze. Nove anni trascorsi invano. Durante i quali si sono accumulati solo colpe e responsabilità, calcestruzzo e fascicoli, abusi e ritardi. La Sicilia del dopo Giampilieri non è cambiata. Passiva e catatonica. Eppure continua, negli interpreti al gran completo del suo sconfortante melodramma, a battersi il petto con una mano e ad additare altrui colpe con l’altra. Non ci crediamo da tempo. Non funziona più. Era l’ottobre del 2009, una catastrofica alluvione spazzava via una crosta fradicia di territorio nel Messinese e condannava a morte 38 persone. Rileggete le cronache di allora e raffrontatele con quelle che troverete nelle pagine che non avremmo mai voluto scrivere di questo giornale. Una tragica sovrapposizione delle cause, una nefanda superfetazione delle chiacchiere, mescolate alla cronica assenza di fatti concreti e azioni risolutive. Ed eccoci a piangere altre vite umane. Usciamo subito dalla facile e pilatesca tentazione di dire che sono state uccise dal maltempo: la natura è l’amica tradita che si ribella, non il nemico vigliacco che attacca. Assodato questo, ci troviamo davanti solo a colpevoli. Una sorta di parata del disonore in cui sfilano tutti in ordine sparso, dallo Stato agli enti locali, dalla politica agli amministratori, dalla burocrazia alla giustizia, dai costruttori all’ultimo dei proprietari/affittuari. Tutti colpevoli. Tutti, fuor di ipocrisia. Perché è colpevole chi edifica in una zona ad altissimo rischio idrogeologico, chi non lo impedisce, chi omette di intervenire, chi partorisce norme equivoche, chi accumula fogli in un fascicolo, chi se lo dimentica in un cassetto, chi strizza l’occhio, chi si affida al fato, chi gioca alla roulette russa con la propria stessa vita. Una politica clientelare che si fa Stato e rimborsa con sanatorie su sanatorie i propri elettori è la stessa che partorisce contemporaneamente amministratori locali spesso imbelli, molto spesso incapaci, ancora più spesso conniventi (se non addirittura protagonisti in prima persona nel gioco degli abusi). E se un sindaco si ribella, qualche volta lo sfiduciano e lo cacciano, qualche altra volta si impantana su burocrazie inette o colluse, qualche altra ancora rimbalza contro tempi giudiziari biblici (sembra che sulla demolizione della villa della morte a Casteldaccia incombesse da parecchi anni un ricorso al Tar). Poi c’è il classico giochetto del «io sono appena arrivato, eredito carenze non mie», intramontabile almeno quanto le passerelle – a piedi o in elicottero, poco cambia – di chi mostra una faccia contrita e promette denari a palate. E siccome le regole in questo Paese sono scritte per gli onesti, non certo per i furbi e i criminali, succede che quei denari si sperdono in mille rivoli e altrettante tasche, mentre i fiumi straripano, i torrenti esondano, le reti fognarie scoppiano, il cemento dilaga, i pendii franano, le strade implodono, i ponti crollano. E si contano le vittime. Che - lo ripetiamo ancora una volta - in molti casi si sono trovate dove non avrebbero mai dovuto farsi trovare. La Sicilia, lo raccontano tutti i bignamini di geologia, ha fondamenta argillose, una pressione antropica sconclusionata e insostenibile, 1.500 km quadrati di aree a serissimo rischio franoso e una carente azione di salvaguardia del territorio. Dati purtroppo non molto dissimili da quelli che disegnano una altrettanto allarmante condizione dell’intero Stivale. Se poi i mari si gonfiano per il riscaldamento globale del pianeta e le piogge tropicali sconfinano nel Mediterraneo con le conseguenze che stiamo purtroppo raccontando da Nord a Sud, smettiamola di puntare il dito contro la leggenda di Giove Pluvio e caliamolo ad altezza d’uomo: i colpevoli sono tutti qui. Siamo tutti qui. Prima e dopo Giampilieri ieri. Prima e dopo Casteldaccia oggi.