Lo spread che galoppa e piazza Affari che boccheggia. Il gettito fiscale che rischia di pagare dazio all’imminente condono e i timori delle banche che si potrebbero riversare sui mutui. Il debito pubblico che raggiunge il record storico e il Pil-lumaca che nelle previsioni farà dell’Italia la cenerentola dell’Eurozona anche nel 2019.
Nel gioco dell’oca in cui si innesta la prima manovra economica codificata dal governo pentastellato, i numeri costituiscono fatti. Mentre tutto ciò che gira attorno ad essi, costituisce la componente variabile che su quel balletto di decimali e percentuali può ulteriormente incidere. Perché in una stagione politica in cui lo scontro si sostituisce al confronto, la sfida al dialogo e la distanza alla convivenza, il prezzo che si paga è comunque fatalmente alto. Altissimo, se si guarda in prospettiva, oltre il tutto e subito di una potenziale logica giacobina di governo che non programma il futuro ma si dedica prevalentemente al presente.
Creando consenso, più che basi: il primo per M5S e soprattutto Lega è costantemente cresciuto dal 4 marzo ad oggi; le seconde rischiano di poggiare sull’argilla dell’azzardo populista. Intendiamoci, un governo sostenuto da una adeguata maggioranza unisce al dovere di guidare un Paese (con responsabilità e buonsenso, certo), il diritto di farlo secondo le proprie strategie e i propri orientamenti. E i partiti di Salvini e Di Maio - più ancora del premier-bilanciatore Conte – lo stanno facendo senza indugi.
Non può però reggere il teorema del “noi soli contro tutti”. L’Europa, i mercati, le banche, gli speculatori, la burocrazia, i media. Tutti acerrimi nemici? E da trattare come tali? Lo spread, il Pil, il debito non sono alchimie lessicali fini a se stesse, ma i capisaldi di un equilibrio globale al quale non ci si può sottrarre con la leggerezza e la superficialità di una tentazione sovranista che sembra prendere sempre più piede nei palazzi romani, con relative sponde oltre confine.
Ovvio, elementi come la tutela e la salvaguardia di una certa identità e primazia nazionale non sono feticci da dare facilmente al rogo di una globalizzazione fin troppo esasperata, tema troppo complesso per limitarlo al solo ormai sedimentato e limitativo dibattito su migranti e cooperazione. L’Italia, però, nelle sue attuali condizioni non può permettersi il lusso di lasciare il mondo fuori dai propri confini. Con un debito pubblico che a luglio di quest’anno ha raggiunto il poco lusinghiero tetto di 2.341 miliardi di euro, non ci si può certo illudere di fare tutto da soli. Anche perché oltre il 30% di questo debito è comunque detenuto da soggetti esteri. Né può servire teorizzare spettri e tratteggiare fantasmi: i mercati – piaccia o no – determinano i destini dell’economia globale, dalla tenuta degli Stati alla sopravvivenza delle imprese e dei loro lavoratori, dal destino delle banche e dunque dei risparmiatori alle scelte degli speculatori. Che non sono orridi mostri tentacolari ma operatori che – al netto di truffatori e profittatori sempre da perseguire – non determinano bensì seguono le dinamiche dei flussi economici e finanziari.
I toni aspri, spesso violenti, qualche volta perfino guerreggianti non rafforzano il valore e la tenuta dei governi, anzi non di rado ne smascherano la debolezza. E in tal senso, va detto, non è casuale che spesso a usarli siano da qualche tempo anche i colletti bianchi di un’Europa un po’ smarrita. Che, nel tentativo di tenere insieme cocci sempre più frastagliati, alza oltre i confini delle contumelie i termini dello scontro. Conforta in tal senso il pacifico confronto di ieri, con reciproco impegno alla moderazione, fra il commissario agli affari economici della Ue Moscovici e il presidente della Camera Fico, in missione diplomatica a Bruxelles.
Basterà? Al governo gialloverde è stato consegnato in eredità un Paese che ha cominciato a boccheggiare nello stesso momento in cui viveva i cosiddetti favolosi anni Sessanta della rinascita. Quelli in cui la pace sociale determinata dal neanche troppo tacito patto Dc-Pci illudeva i contemporanei, ma nel frattempo cominciava a scavare il baratro del debito per le generazioni future. Da allora la vanga non si è mai fermata, perennemente in movimento sotto tutti i governi succedutisi in mezzo secolo. Illudersi di voltare le spalle a tutto ciò facendo spallucce ai numeri di un Paese che ogni mese accumula debiti per miliardi di euro può accendere la claque della piazza.
Ma la storia insegna che è sempre la piazza a presentare alla lunga il conto. Adombrare solo nemici interessati in chi osa confutare le proprie formule economico-finanziarie di governo; pronosticare, anzi auspicare, terremoti politici elettorali alle prossime europee; gridare al complotto mediatico con relativo anatema contro i giornali; fare proseliti con i proclami lanciati sui social. Sono tutte strategie dal fiato corto. Pericolose per un Paese già in affanno. Che ha bisogno di un domani progressivamente migliore dell’oggi. Non certo di un oggi a prescindere dal domani.
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