Era inevitabile. Fatalmente e desolatamente inevitabile. La protesta dei senzacasa e dei residenti contro il trasferimento delle famiglie rom in una struttura confiscata alla mafia era anzi scontata. Perché il nervo scoperto non è stato solo toccato, ma letteralmente colpito. Altrettanto scontato è adesso il dibattito sul filo del razzismo e della tolleranza, della xenofobia e della solidarietà, del nazionalismo e della fratellanza. Si può danzare sulla sottile linea, balzando da una parte all’altra nel breve volgere di una riflessione o di un distinguo. Con le rispettive claques pronte ad applaudire e fischiare a seconda che il ragionamento si sposti di un centimetro da questa o quella parte. Se però per un istante provassimo a scindere lo strumentale dal reale, il politico dal popolare e dimenticassimo le bandiere e i simboli che ieri accompagnavano la serrata (non vedevano l’ora, del resto), comprenderemmo forse perché la protesta ha radici ben più antiche e sedimentate. Che del torbido e populista vento dell’intolleranza che sta pericolosamente attraversando questo Paese, non risparmiando nessuno dei suoi angoli più reconditi, sono non l’effetto ma piuttosto la causa. Via Felice Emma è un budello senza sbocchi e ignoto ai più, incastonato nel pieno della sconclusionata urbanizzazione alle spalle del carcere di Pagliarelli. Dai rifiuti alle fognature, dall’illuminazione alla sicurezza, un coro di proteste per anni inascoltato. Succede poi che il Comune invia un reggimento di tecnici, ingegneri e manovali in tutta fretta per recuperare un minimo di decoro e preparare l’arrivo delle famiglie rom appena sfrattate dal campo-letamaio della Favorita. Dove l’ultratrentennale inedia parolaia delle amministrazioni pubbliche che si sono succedute ha dovuto attendere la via giudiziaria per intervenire, liberare, sbaraccare e ripulire (le prime due sono andate in porto, per le altre due vedremo quanto dovremo aspettare). È davvero così censurabile la rabbia dei residenti di quella strada, ignorata per anni e ora improvvisamente rimessa a lucido non certo per soddisfare le loro reiterate e inascoltate richieste? C’è poi la questione dei senza casa. Intruppati e catalogati in quella lunga lista che ogni tot mesi il Comune aggiorna senza riuscire a sfoltire, una sorta di cahier de doléances dell’annoso disagio in cui versa buona parte della città, al netto di truffatori, profittatori, speculatori più o meno organizzati (non mancano, non mancano affatto). Si aspetta per anni, molti anni. Spesso invano. Poi arrivano i rom. Lungo una rotta parallela. Ben più rapida. Magari in nome di quel concetto di accoglienza e fratellanza (ci sta) condito da un robusto tocco di populismo e demagogismo (ci deve necessariamente stare?). È davvero così censurabile la rabbia di chi attende e attende e poi la casa tanto agognata finisce ad altri? Insomma, al netto delle sempre censurabili manifestazioni di violenza - e questo ultimo caso non sfugge - il prima gli italiani (o i palermitani che sia) è slogan da beghe politiche. Sul quale ognuno può speculare a modo suo. Ma se la politica affrontasse per tempo disagi ed emergenze senza onde emotive e pathos da copertina, si correrebbe questo rischio? Strade pulite, servizi minimi assicurati, assistenza e supporto garantiti. Sarebbero queste le chiavi d’uscita dal gorgo della polemica e della disfida para-razzista. Senza bandiere, simboli e marchi, che spesso servono solo per procacciarsi consenso pescando nella disperazione. Ma col buonsenso e l’efficienza. Perché il razzismo prolifera nell’ignoranza. Che è figlia del disagio. Che cresce nel degrado. Che è il fallimento della cosa pubblica (a tutti i livelli, statali e territoriali). Se ci si sofferma solo sulla tesserina finale, l’effetto domino durerà all’infinito. È inevitabile. Fatalmente e desolatamente inevitabile.