Visti dal salotto buono di Palermo, fondo Picone e via Decollati hanno l’aspetto rassicurante di quelle stradine strette e malfamate che disegnano a fatica le trame e i prospetti delle periferie. Sempre «laggiù». Sempre più in là rispetto al punto in cui possiamo buttare l’occhio o le basi per il futuro. In realtà via Decollati e fondo Picone – dove fino a poche ore fa c’era il corpo di un ventinovenne sfigurato da una scarica di proiettili – distano poco più di 4 chilometri a piedi da via Notarbartolo e dall’albero divenuto meta di pellegrinaggio di chi oggi urlerà i suoi slogan chiedendo una città libera dalla mafia. Coincidenze. Esattamente un anno fa, in occasione del 25° anniversario della strage di Capaci, questo giornale dava con grande evidenza anche nel titolo di apertura della prima pagina, la notizia di un brutale omicidio di mafia nella Palermo già blindata per commemorare Falcone. Una scelta, quella della data, che definimmo tutt’altro che casuale e che confermava – ove mai fosse necessario – quanto forte sia ancora il potere dei boss. Sprezzanti e temerari al punto da regolare platealmente i loro conti interni, col sangue, proprio nei giorni in cui si celebravano – nel ricordo di vittime illustri – i tanti progressi compiuti dallo Stato. Tanti, appunto, ma evidentemente non abbastanza. Perché a fronte di un’azione continua e costante che ha indebolito seriamente l’organizzazione, senza purtroppo sconfiggerla, dall’altro lato è cresciuta una certa idea deviata di antimafia. E il paradosso, in una terra che per decenni è stata soffocata, strozzata e anche dilaniata da un cancro che a queste latitudini si chiama Cosa nostra, è che alla fine ci si ritrovi con una cura per certi versi peggiore del male. Perché l’antimafia vista come scorciatoia, salvacondotto e perfino come una lobby o uno Stato parallelo che può decidere le sorti di appalti, governi, fusioni, carriere, ascese e declini di politici, magistrati, uomini delle forze dell’ordine, imprenditori, professionisti (giornalisti compresi) rischia di puzzare almeno quanto quella stessa mafia che a parole fa schifo a tutti, ma nei fatti è diventata quasi una caratteristica genetica di un popolo che non riesce o non vuole affrancarsi. Dopo tutto se arresti, condanne e sequestri non sono riusciti a infliggere un colpo mortale alle organizzazioni criminali è anche un problema di humus, di consenso e di esempio. La mafia non è solo piombo e stragi. La mafia, per quanto possa sembrare banale, è anche costume, azioni apparentemente ordinarie, è un modo per aggirare gli ostacoli, per saltare la fila, scavalcare chi ci sta davanti e ottenere qualcosa che non ci spetta, è un diritto che diventa un favore o una merce di scambio, è una scappatoia davanti alla legge, è clientela, corruzione, è soprattutto un torto e una mortificazione nei confronti di chi si ostina a vivere osservando le regole. Anche per questo non si può consentire a chi sta dall’altra parte della barricata di disorientare i cittadini onesti o di legittimare i comportamenti criminali. Purtroppo le cronache degli ultimi anni – qualora le sentenze e i processi dovessero certificare i fatti contestati – ci hanno consegnato una lettura devastante in questo senso. Con una sezione del tribunale trasformata in centro di potere di poche persone che, per almeno un lustro, avrebbero gestito i beni confiscati come dependance e le amministrazioni giudiziarie come uffici di collocamento per amici e parenti. O con un nucleo ristretto di imprenditori, politici e affaristi che avrebbero costruito e demolito carriere, imposto assessori, burocrati e perfino l’agenda ai governi. Per non parlare dei numerosi casi – emersi in più di un’ordinanza, compresa l’ultima notificata ieri a undici esponenti del clan della Noce – di boss e picciotti che confondono le acque insinuandosi nella parte sana della società, suggerendo l’adesione a movimenti antiracket o l’organizzazione di manifestazioni antimafia e religiose utilizzate (all’ombra di una chiesa a volte troppo distratta), oltreché per smacchiare immagine e coscienze, anche per finanziare le cosche. Un’azione concentrica di delegittimazione che oltre a minare la credibilità del movimento antimafia, rischia di spazzare via anche il ricordo ormai sbiadito di quell’avamposto che scendeva in piazza e stendeva i lenzuoli sui balconi, fischiando i politici accusati di avere lasciato solo chi combatteva in prima linea. Quell’antimafia lì, germogliata in una terra arida e al culmine del periodo più buio della nostra storia, non indossava giacche e cravatte firmate e non aveva bisogno di girare sotto scorta. Perché aveva un popolo dalla sua parte. Un popolo che non avrebbe mai pensato, a distanza di un quarto di secolo, che sotto il vessillo della legalità sbandierata a ogni piè sospinto si potesse nascondere anche il centro di affari tutt’altro che limpidi. O che quelle tessere e quelle medaglie, concesse in certi casi con estrema leggerezza, potessero diventare per qualcuno semplicemente una patente che spiana la strada a carriere politiche e professionali, creando scorciatoie e blindando chi ne fa parte in una rete di protezione e garantismo che non è concessa a nessun altro comune mortale. Negli ultimi 26 anni, o giù di lì, non c’è stato un convegno o una commemorazione in cui non si è posto l’accento sulla necessità di lanciare segnali importanti a quella parte di società che non riesce ad affrancarsi (o non vuole liberarsi) dal giogo mafioso. A quei commercianti che preferiscono beccarsi una condanna piuttosto che denunciare gli estortori. A chi si volta ancora dall’altra parte davanti al malcostume. O a tutti quei cittadini – e sono veramente tanti – che per risolvere un problema continuano a scegliere gli uomini con le coppole al posto di quelli con le divise. Non è solo una questione di paura o di potere dei boss, ma di credibilità di chi dovrebbe stare dall’altra parte. Di chi dovrebbe convincerci che la legalità paga, ma paga tutti. Di chi dovrebbe dimostrare a un imprenditore che si piega al ricatto e a volte finisce col fare affari direttamente con i boss, che l’alternativa c’è e che non sarà superato a destra da chi invece usa la patente dell’antimafia o della legalità per truccare il risultato e arrivare primo al traguardo. È questo, in attesa di conoscere le scelte del nuovo governo in materia di giustizia e lotta alla criminalità organizzata, l’unico segnale che dovrebbe dare chi si colloca dalla parte giusta. Altrimenti mafia e antimafia rischieranno di essere due Stati paralleli. Due facce della stessa medaglia. Due estremi sulla carta lontani ma che al culmine del loro percorso finiscono quasi per toccarsi, confondendo le acque, disorientando i cittadini onesti, legittimando le scorciatoie.