Come quei marmocchi pescati dai genitori con le dita ficcate nel barattolo della marmellata. Pronti a dichiararsi candidamente meravigliati nello scoprire che non si fa e subito disposti a promettere che non si ripeterà più, pur di evitare reprimende e scappellotti. Solo che quelli ieri mattina disciplinatamente silenti e ordinatamente seduti nei banchi della Corte dei Conti, in attesa che venissero a turno chiamati a dire qualcosa a propria discolpa, i panni dei discoli marmocchi dovrebbero averli smessi ormai da parecchi lustri. Per indossare abiti sartoriali degni dell’antico e glorioso (oggi più il primo che il secondo) parlamento siciliano. Settanta rappresentanti del popolo, eletti - o rieletti – cinque mesi fa. Che hanno perso poco, anzi pochissimo, tempo per mettere insieme un lungo, anzi lunghissimo, elenco di portaborse, collaboratori, consulenti, coadiuvatori o chiamateli pure come volete. Non importa (o magari sì?) se amici o parenti, simpatizzanti o sostenitori, trombati o riciclati, miracolati o riesumati. Questo non è neanche il problema più serio (le eccezioni non mancano, vivaddio). Così come non è il problema principale il ricorso a nomine fiduciarie, comunque previste dalla legge (anche se su questo giornale più volte abbiamo sottolineato che norme ed etica non sempre coincidono). Lo è piuttosto il metodo adottato, subdolo e sistemico, pletorico e trasversale. Quello che in poco più di cento giorni ha massificato nelle auliche stanze di Palazzo dei Normanni una folla di addetti paralleli che neanche nelle storiche e sconclusionate corti medievali. Fino al clamoroso e intollerabile paradosso dell’ignoranza generalizzata e dichiarata sui contenuti di una norma di recente adozione che imponeva la riduzione e la gradualità delle retribuzioni dei cosiddetti «stabilizzati». Allegramente beneficiati invece di bonus, superminimi, scatti d’anzianità. «Non la conoscevamo», la serafica giustificazione dei non-più-marmocchi, che ha lasciato a bocca aperta gli esterrefatti magistrati contabili. Già il 30 dicembre scorso, con la nuova Ars insediatasi da appena 15 giorni, titolavamo in prima a tutta pagina «Carissimi portaborse», segnalando l’anomalia di un parlamento che pur avendo ridotto i suoi rappresentanti da 90 a 70 si accingeva a spendere tre milioni in più per aiutanti e affini. Da allora la crescita di queste non ben definite figure è stata esponenziale o, per dirla con le parole della stessa Corte dei conti, «iperbolica». E adesso? Tutti a fare i bravi scolaretti, smoccolando un «non sapevamo che non si potesse» e aggiungendo a capo chino un solenne «non lo facciamo più». Tutti, nessuno escluso, con le dita ancora sporche di marmellata. Quelli che c’erano già prima delle elezioni e quelli che a novembre hanno debuttato, quelli che tacevano e tramavano e quelli che urlavano e contestavano. Chi diceva di non sapere e chi denunciava in comunicati ufficiali i «troppi precari e tipologie contrattuali inaudite», avendo nel frattempo sottoscritto 21 incarichi. Di certo una clamorosa «operazione antipatia», in attesa che la Corte dei conti si pronunci su eventuali vizi di legittimità. Perché quelli di opportunità sembrano ormai ampiamente acclarati. Nella Sicilia degli stipendifici pubblici a prescindere da tutto. Dai reali bisogni alle concrete esigenze. In cui nulla sembra fare eccezione. Vedi il micidiale meccanismo mangiasoldi della Formazione, dove conta quanta gente si ha a libro paga, non a cosa questa gente serve e che risultati effettivi garantisce ogni singolo corso; vedi l’iconica vicenda dei forestali, quelli che neanche in Amazzonia, quelli per i quali sono appena stati annunciati degli aumenti, quelli che però oggi sfileranno in corteo di protesta per le vie di Palermo; vedi l’irrisolta questione dell’impossibilità di spostare dipendenti da un ufficio all’altro se non attraverso complessi filtri di volontarietà e condivisione sindacale. In una sorta di gigantesco minestrone pubblico regionale (politico e burocratico che sia) in cui per i diritti si lotta e sui doveri – naturalmente - si transige.