Giovedì 19 Dicembre 2024

La politica accartocciata

In soldoni: Di Maio vorrebbe fare un governo con la Lega o col Pd, ma non con Forza Italia; Salvini è pronto a un accordo con il M5S ma non molla gli alleati azzurri e vuole lasciare fuori dalla porta il Pd; Berlusconi punta su Salvini per un governo di coalizione e spara bordate contro i grillini; Martina piazza strategicamente i resti del Pd all’opposizione ma deve fare i conti con i malpancisti governativi del suo partito. Risultato: Mattarella ascolta tutti, sospira e si prepara paziente ma determinato a un secondo giro. Basterà? Servirà? Su una politica accartocciata che ci è stata consegnata senza capo (soprattutto) né coda dal voto del 4 marzo e da un sistema elettorale autolesionista, le ombre di un ritorno alle urne si allungano pericolosamente, più come una minaccia che come una opportunità. Perché il rischio che l’immobilismo tracimi in paralisi è esattamente ciò di cui non ha bisogno questo Paese. Intendiamoci: un voto bis non conviene a nessuno. Andatelo per esempio a spiegare a quel 60% abbondante di neo parlamentari che hanno pescato il jolly del loro primo mandato e si sono già piazzati comodi comodi sugli scranni dei due emicicli. E, a giudicare dal sondaggio Demopolis pubblicato ieri da questo giornale, non converrebbe neanche ai partiti: né agli sconfitti – tutti in calo di consensi – né ai due simboli usciti meglio dalle urne un mese fa, che guadagnerebbero un paio di punti percentuali ciascuno, lasciando di fatto immutata l’attuale situazione, con leghisti e grillini a mostrare i muscoli senza troppi giri di fioretto. Appurato questo, però, nessuno è così ingenuo da credere che – ora più che mai - gli assolutismi e gli irrigidimenti di oggi non possano diventare ammiccamenti e strizzatine d’occhio domani. La politica ci ha abituati a capriole e rimbalzi, inversioni e dietrofront, nel nome supremo dell’interesse di parte. E pazienza se poi diventa problematico riuscire a farlo comprendere ai propri elettori, a loro volta da un lato sempre più scafati per non capire quali logiche prevalgono e dall’altro sempre più disillusi proprio in virtù di queste logiche. È opportuno però uscire dalle ipocrisie preconcette: il Paese ha bisogno di un governo vero, reale e solido, esigenza davanti alla quale tutti dovrebbero saper rinunciare a un pezzetto dei propri insindacabili e inespugnabili principi. Non ci sono alternative: oggi un governo è possibile solo se ci si ritrova a condividere, non certo a imporre. Nessuno ha i numeri per questa seconda opzione, tutti possono lavorare alla prima. L’alternativa è appunto la paralisi. Quella paventata – tutt’altro che in modo azzardato già ben prima del 4 marzo – dai big dell’Ue. Disposti ad attendere cinque mesi che la Merkel trovasse la quadratura per avviare il suo quarto mandato, ma non certo più di tanto un’Italia che arranca e oggi è più passeggero che motore della locomotiva Europa. Non a caso nei colloqui di questi due giorni Mattarella ha fatto cenno con tutti ai vincoli europei, siano essi economici (il rispetto dei conti pubblici) che politici (la fedeltà ai trattati Ue). Provando a fermare sul nascere ipotesi di azzardi rivoluzionari in un senso o nell’altro. Tanto che Di Maio ieri ha tenuto a sottolineare davanti ai giornalisti, subito dopo il colloquio col presidente, che il M5S non intende prescindere dagli accordi europei in termini di politica economica, sociale e monetaria. Su questo, del resto, Mattarella non transige. E fa benissimo. Perchè nel frattempo succede che gli ultimi dati Istat rivedono in peggio i conti italiani del 2017, riducendo dunque ulteriormente i margini di movimento di qualunque governo sarà chiamato a gestirli, ma al contempo legittimando l’esigenza imprescindibile che non si aspetti oltre. Mattarella, nel rimandare tutti al prossimo giro di consultazioni, ha parlato chiaramente del bisogno di trovare convergenze fra forze politiche. L’ipotesi di governi tecnici, di scopo, del presidente o altre alchimie lessicali, non sembra dunque presa in considerazione. E siccome non la vogliono neanche i partiti, non c’è alternativa al dialogo. Parlare di voto imminente come approdo inevitabile sarebbe una iattura, oltre che una sconfitta di tutti. Le esigenze sul tavolo sono del resto molte e sempre le stesse. A cominciare dalle condizioni economiche e occupazionali di un’Italia che continua a marciare a passi distonici. Il rapporto 2018 sulle piccole e medie imprese del Mezzogiorno, diffuso ieri da Confindustria, traccia un bilancio in chiaroscuro: se è vero che è un sistema che torna a crescere anche a ritmi superiori a quelli della media nazionale, è altrettanto vero però che è costituito da una rete di imprese di piccolissime dimensioni, che in quanto tali non possono certo garantire una reale svolta in termini di sviluppo. Resta complicato l’accesso alle fonti di finanziamento, non solo bancario. Credito, finanza, strumenti di incentivazione, fondi europei e meccanismi di controllo e vigilanza devono entrare in un’unica azione sinergica che consenta alle aziende sane di usufruire di reale sostegno e a quelle marce di non drogare il mercato, compromettendone gli equilibri. In questo agone, insieme al mondo del credito e della finanza, devono agire da protagoniste le istituzioni. Dunque la politica. Quella politica che però, al Sud in generale e in Sicilia in particolare, ha declinato da tempo il suo ruolo al rango di mero garante di uno stipendificio pubblico, foraggiando storicamente il consenso attraverso il meccanismo perverso delle clientele, logica che strozza l’impresa (e dunque l’occupazione) privata, vista spesso come un unico grosso cancro sol perchè non si è capaci di attaccarne e debellarne alcune metastasi. Poi però ci si meraviglia se alla Regione quasi il 40 per cento dei dipendenti gode di benefici come la legge 104 o l’intoccabilità sindacale. L’etica, non siamo verginelle, conta poco o nulla: le norme lo consentono. Ma le norme chi le scrive? La politica. Che oggi è accartocciata su se stessa. Nell’affanno dei suoi protagonisti di garantirsi un posto in prima fila. E nell’incapacità – dolosa o colposa che sia – di garantire il Paese e un sistema di regole decenti e moderne. In base alle quali i doveri abbiano almeno lo stesso peso dei diritti nel comparto pubblico. E i diritti lo stesso peso dei doveri in quello privato. È forse chiedere troppo?

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