La crisi economica globale, conclamatasi sotto gli occhi di tutti il 15 settembre 2008 con il fallimento della Banca d'affari Lehman Brothers, quella crisi per intenderci che ha devastato l'economia mondiale e che ancora oggi subiamo, ha insegnato qualcosa, almeno sul rispetto di certi valori e regole?
Tutto è cambiato in questi 10 anni (poco in meglio), anche il mondo dell'informazione che ha dovuto sopportare un vistoso calo di pubblicità, di copie e ascolti.
Patendo, al contempo, la concorrenza anarchica della rete, una sorta di idrovora che attinge a tutti i contenuti possibili e li sfrutta economicamente, senza vantaggi per chi li genera. Google e Facebook controllano il 75% del mercato mondiale degli «spot» online, e assieme ad Amazon, Apple, Alibaba e Tencet quotano 4.000 miliardi di dollari.
Un oligopolio, una forza d’urto da far paura. Problema dei media? Crediamo di no poiché, e lo sottolineiamo da tempo, entra in gioco il concetto stesso di libertà, di democrazia, valori legati a filo doppio al pluralismo dell’informazio - ne, libera e di qualità, che tale può essere solo quando dispone delle giuste risorse. Valori che dovrebbero stare a cuore a tutti.
A maggior ragione oggi, nel momento in cui scopriamo - «comoda» distrazione? - che siamo osservati, studiati, profilati e ceduti al miglior offerente dai miliardari della rete. A chi piace questa intrusione nella vita di ciascuno di noi, finalizzata a orientarci, a plagiarci? Se Facebook ha «svenduto» la privacy di 50 milioni di utenti, si potrebbe obiettare, peggio per chi ci casca.
Ma davvero possiamo far finta di niente e continuare a... frequentare il web senza alcuna garanzia? A noi dello scandalo «Cambridge Analytica» preme sottolineare, al contempo, un risvolto di carattere economico, che nasce da un dato statistico: le grandi crisi mondiali nascono sempre negli Stati Uniti. Forse perché patria del capitalismo d’assalto? In questo momento il conto della spregiudicatezza dei signori della net economy ha superato i 700 miliardi di dollari, tanto ha perso il settore tecnologico (leggasi risparmiatori) in appena due settimane.
La società più penalizzata è risultata Facebook, che ha bruciato 73 miliardi di dollari di capitalizzazione subendo, al contempo, la rescissione di importanti contratti pubblicitari. Le Borse, soprattutto quella americana, ne hanno risentito. Anche perché è spuntato, tra chi ha venduto a piene mani azioni del social network, il nome del fondatore Zuckerberg: ha mollato 863mila titoli per un controvalore di 140 mln di dollari, scendendo al 13,5 per cento del capitale sociale. Ai minimi storici.
Un brutto segnale per i piccoli investitori, giunto insieme a numeri poco rassicuranti sull’economia globale e Usa in particolare: il debito mondiale ammonta a 217mila mld di dollari, nel 2017 (quando scoppiò il finimondo) era di «appena» 149mila mld; quello delle famiglie americane che usano carte di credito supera i 1.000 mld di dollari, con il monte risparmio sceso ai livelli critici del 2007; non bastasse, sono tornati di moda i mutui subprime e le obbligazioni ad alto rischio. Ne avranno di argomenti sui quali discutere i nostri Salvini e Di Maio! O no?
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