È un crescendo wagneriano di intolleranza settaria, dialettica sguaiata e violenza belluina, quello che sta accompagnando l’Italia nel suo ruvido e sconclusionato avanzare verso il voto del 4 marzo.
Una marcia che affonda i cingolati delle forze in campo nella melma del disordine morale e istituzionale, come probabilmente mai negli ultimi 30-35 anni. La concatenazione degli episodi delle ultime settimane – il caso Macerata ha solo versato benzina su tizzoni già ardenti – ha incendiato in maniera irreversibile il dibattito politico, con uno straripamento nella prova muscolare fra le forze in campo e soprattutto fra i figuranti del loro torbido sottobosco generazionale. Quello cioè più fumantino e incontrollabile, meno disposto al confronto e più portato allo scontro.
Terreno, quest’ultimo, più fertile e dunque più propenso a far attecchire la malerba del disagio sociale e civico. Che è però ormai retrocesso dal rango di causa a quello di mero pretesto. Perché la logica è purtroppo sempre quella del sassolino che genera la valanga. E se le pietruzze del dibattito politico di prima linea possono apparire banali cincischiamenti elettorali (privi di sostanza reale, ma mediaticamente efficaci), il problema è il loro rotolamento incontrollato e progressivamente sempre più rovinoso lungo il pendio che giunge alla base della montagna.
Ostia, Como, Macerata, Pietraperzia, Castelfiorentino, Perugia e ancora la lapide di via Fani, il pestaggio di Palermo, l’incursione negli studi de La7. Sono solo alcune delle oscure bandierine piantate su un’unica mappa. Quella di un Paese in cui si sta perdendo la capacità di gestire e sedare gli istinti primordiali delle sacche più estreme, per anni tenute dietro robusti recinti da una classe politica magari arruffona e qualche volta truffaldina, ma capace di garantire in qualche modo ordine democratico e pacificazione sociale. Oggi invece si inneggia a chi sgancia più superlativi e a chi indossa i panni di un deviato Masaniello, in ragione ora di uno, ora di un altro interesse di parte.
E non ci si venga a raccontare la favoletta delle sinistre pacifiste e le destre squadriste. Nel guazzabuglio dell’intolleranza, degli schiamazzi, delle piazzate e delle bastonate ci sono dentro tutti. Chi si accartoccia su acrobatici e faziosi distinguo, intinge anch’egli il dardo nel veleno della degenerazione post-ideologica (che di ideologie qui ormai ci si riempie la bocca al massimo con due o tre nozioni rubacchiate qua e là, fra slogan murali e pagine di Wikipedia).
Non regge neanche il confronto, né il rimando ai tanto inflazionati e vivisezionati anni di piombo. Il contesto è radicalmente mutato, perfino il fine appare diverso (non era certo nobile allora, è addirittura inesistente adesso). E questo rende tutto ancora più liquido, più melmoso, meno gestibile. Più pericoloso, insomma. Sono saltate le regole. Le fake news non sono più burlette social, ma alabarde insanguinate nell’arena politica.
Perfino i nostri servizi di sicurezza – fra un allarme e l’altro sui terroristi Isis nascosti nei barconi-fantasma in rotta verso la Sicilia – trovano il tempo di mettere nero su bianco il rischio cyber-crime. Cioè quel complesso reticolato digitale da cui emergono, evidenziano gli 007, fibrillazioni eversive, dagli anarchici all’estremismo marxista-leninista, al dinamismo crescente della destra radicale, con il proliferare di nuove sigle che attraggono giovani e iniziative all’insegna del nostalgismo fascista.
«Bisogna contrastare la pratica violenta dell’estremismo politico», dice Gentiloni, commentando la relazione ad alzo zero dell’Intelligence. Il guaio è che siamo nella fase in cui il contrasto appare ormai affidato solo alle forze militari e giudiziarie, essendo quelle politiche incapaci, se non addirittura complici.
Si vota fra dieci giorni. Non sappiamo che Italia sarà quella che uscirà dalle urne. Ma sappiamo purtroppo che Italia sta diventando quella che alle urne si approssima.
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