Davanti ai rifiuti-business di mafia e al conseguente tintinnio di manette, ci aspettiamo adesso due reazioni. Intanto gli oh di meraviglia delle anime (finte) candide che – riatterrate sul pianeta Sicilia dopo voli teoremici fra le galassie della morale a tanto al voto – scoprono che, nientepopodimeno, le cosche non vivono solo di pizzo e droga. E piuttosto fanno affari ovunque annusano odore di soldi, corrompendo colletti bianchi compiacenti e insinuandosi nelle maglie slabbrate degli appalti pubblici. E poi, immancabili, ci aspettiamo anche gli anatemi contro il demone privatizzazione da parte di chi osanna le gestioni pubbliche a ogni costo e pazienza se poi truffe e ruberie maturano anche (soprattutto?) lì, ancor più foraggiate da incapacità manifeste e inefficienze strumentali. L’inchiesta di Catania arriva peraltro in pieno rinfocolarsi del dibattito sul destino dell’intero disastrato servizio di smaltimento che non risparmia alcuno spicchio di Sicilia. Fra appena 24 ore scade l’ordinanza – l’ennesima ordinanza – che rattoppa l’ultrabucherellato programma regionale di gestione del comparto, fra immonde discariche - ormai abbondantemente fuorilegge - che collassano, assenza cronica di prospettive, irrisolti dibattiti ideologici sul come intervenire e città più che mai insozzate e soffocate dai propri escrementi. Con una grana non da poco per il neopresidente della Regione, che sbandiera in autotutela il facile alibi dell’eredità-disastro (chi non lo avrebbe fatto al suo posto?) e si prepara a pietire un’altra proroga alle ormai sgamatissime sentinelle romane. Che contro la Sicilia ferma all’età della pietra (anzi della discarica) in materia di rifiuti hanno finora - per fortuna, ma non ne siamo certi - usato la materna mano morbida di chi comprende di avere a che fare con un inconcludente cronico e prova a dargli un’altra possibilità. L’impressione – ci verrebbe da dire la speranza - è che però sia l’ultima. Tergiversare, rinviare, procrastinare a queste latitudini è un po’ approfittarne. E non è più tempo di tirare a campare. Urge insomma decidere. Accumulare rifiuti in aride vallate e pendii scoscesi è preistoria. Differenziare a percentuali considerevoli resta utopia. Fare dell’immondizia una risorsa sarebbe la soluzione. Che però passa attraverso scelte nette, perentorie e moderne. Non si tratta di riesumare lo stucchevole dibattito su inceneritori, termovalorizzatori, bioconvertitori e altre alchimie lessicali. Si tratta banalmente di provare a imitare chi al progresso tecnologico ha affidato la via della soluzione, nel mondo, in Europa e già in buona parte dell’Italia. Senza gli integralismi ambientali preconcetti, senza la ricerca dell’«interesse» a tutti i costi (che non sia quello supremo e collettivo), con la giusta visione moderna. E, soprattutto, senza l’annoso, cronico e perdente alibi dell’equazione, tuttora cara a molti, grandi opere=grandi interessi criminali. La mafia dentro i grossi affari pubblici c’è già oggi, come dimostra il caso Catania. È capace, il Pubblico che tutto controlla e tutto gestisce, di tenerla fuori dai propri recinti, aprendo al Privato virtuoso, all’impresa sana, agli investimenti produttivi? Non sono le proposte a mancare. Semmai le risposte. L’alternativa è l’inedia, la paralisi, la morte civica, l’autocastrazione. Come quella storia del marito che per fare dispetto alla moglie fedifraga impugna le forbici e…