E così chi si illudeva che la Sicilia vibrasse di partecipazione e viaggiasse fremente e speranzosa verso i seggi che apriranno fra appena 22 giorni, è bello che servito. Più di un elettore su due molto probabilmente non voterà e fra quei due milioni scarsi di aficionados dell’urna, almeno 750 mila non sanno ancora per chi. In ogni caso, una minoranza. Intendiamoci: il diritto all’astensionismo va tutelato tanto quanto il dovere civico del voto. È una scelta, non una costrizione. E come tale va esaminata e analizzata. Facile e pilatesco liberarsi del fastidio dell’astensionismo bollandolo come menefreghismo o mero disinteresse, quando invece è – nella stragrande maggioranza dei casi - malessere, disaffezione, delusione. Sintomatico che esista una certa coerenza percentuale rispetto al voto di cinque anni fa, che promosse Crocetta presidente della Regione con appena il 30% dei consensi di meno della metà dei siciliani presentatisi alle urne. Secondo il sondaggio commissionato e pubblicato ieri da questo giornale, la tendenza sembrerebbe immutata. Cosa che non assolve nessuna delle forze, degli schieramenti e dei singoli candidati in campo. Non assolve chi ha governato durante quest’ultimo lustro, incapace di fidelizzare i siciliani sui propri risultati, evidentemente non all’altezza delle aspettative. Non assolve le forze che questo governo – con non pochi distinguo e parecchi compromessi – lo hanno sostenuto, incapaci adesso di recuperare consenso e anzi in evidente disgregazione e conseguente emorragia di voti. Ma non assolve neanche le forze rimaste finora all’opposizione – o che hanno danzato fra dentro e fuori - incapaci di presentarsi alla nuova tornata elettorale con appeal tali (in termini di progettualità o individualità) da erodere il monolite dell’astensionismo. Neanche scalfito da una campagna elettorale trascinatasi stancamente, con il solito corollario di ripicche e improperi, battibecchi e scambi di complimenti, durante i quali l’unico tentativo di scuotere le coscienze sopite si è giocato sull’abusato, inflazionato e ormai ampiamente sgamato giochetto dell’antimafia di facciata. Fra chi sceglie figli e parenti di martiri, chi si inventa assessorati alla legalità (riconoscendone così, ahinoi, la necessità), chi punta su impresentabili veri, chi addita impresentabili presunti, chi stila e chi attende morbosamente le liste di proscrizione col bollo della commissione parlamentare, approdata ieri in forze sulle sicule sponde. Non ci illudiamo che negli ultimi venti giorni improvvisamente si cominci a parlare di programmi reali e di proposte concrete. Che, intendiamoci, è ben altra cosa che parlare di bisogni ed esigenze. Perché è facile dire che il lavoro manca, che i giovani fuggono, che le imprese muoiono, che il turismo boccheggia, che le famiglie annaspano, che i ponti crollano, che la mafia va combattuta. Non ci sarà uno solo dei 900+5 candidati in campo che dirà il contrario. Sì, ma come rimediare? Non uno straccio di proposta capace di svegliare dal torpore chi di votare non vuole saperne. Certo, potrebbe anche essere sostenuto il teorema opposto. Che il siciliano, campione mondiale di lamento e borbottìo, è vittima del pregiudizio e preferisce additare invece che partecipare; criticare invece che scegliere; prendersela con la mancanza di facce nuove (Musumeci e Cancelleri c’erano anche cinque anni fa e solo un problema tecnico fermò Fava) e al contempo ironizzare sul Micari sconosciuto alle masse. Ma a chi tocca provare a invertire la rotta? Chi deve riportarlo a una sana partecipazione, se non chi è chiamato a sottostare al suo giudizio? Del resto, siamo certissimi che il tanto demonizzato astensionismo di massa sia nemico di tutti i candidati in campo? Di certo, è il fronte che ha la maggioranza assoluta. Oggi come cinque anni fa. E questo segna in maniera indelebile la consistenza dell’attuale classe politica. Chiusa nel suo rifugio dorato. E pronta a pontificare davanti a prosceni di adepti schierati, non di elettori ancora da persuadere. Ne tenga conto anche chi - giusto o sbagliato che sia - riserva al voto del 5 novembre un ruolo che va ben oltre lo Stretto e arriva a lambire i palazzi romani. La Sicilia laboratorio politico è forse ormai una favoletta. La Sicilia avamposto di disaffezione italiana è invece una drammatica realtà.