Mezzo miliardo di euro. Tanto vale, in termini di produzione annua, il comparto dell’allevamento in Sicilia.
Una cifra che da sola offre la chiara dimensione del peso di un settore ancora trainante per la zoppicante economia siciliana. E la Regione che fa? Vede implodere, impotente, la sua società incaricata di certificare la qualità e dunque il valore delle produzioni autoctone: una lunga crisi chiusasi con un fallimento senza che nessuno fosse in grado di evitarlo. Da allora sono passati due mesi. Invano. Perché si tergiversa, si cincischia, ci si accapiglia principalmente sul destino dei lavoratori della vecchia società.
Risultato: le certificazioni sulle razze mancano, il bestiame perde valore, la produzione si deprezza con un effetto domino che si ripercuote anche sul mercato al dettaglio, per le aziende si compromette la possibilità di concorrere all’assegnazione di finanziamenti. Superfluo sottolineare la portata di un tale black out. Sul quale ancora una volta grava l’incapacità cronica del pubblico di farsi sostenitore e promotore del privato, finendo per esserne invece ostacolo e zavorra. Le sorti dell’Aras erano segnate da tempo, secondo la vecchia disgraziata logica siciliana del tirare a campare fino a che l’urgenza implicita diviene emergenza acclarata. In passato in questi casi abbiamo urlato la necessità di arrivare a commissariamenti che strappassero il velo dell’incapacità e dell’indolenza regionale. Unica via da percorrere per una Sicilia delle dorate stanze istituzionali, in cui ci si azzuffa per prebende e clientele, si stampigliano volantini elettorali con fasulli sorrisi e slogan di circostanza. E intanto l’economia boccheggia, i disabili restano soli, l’immondizia ci sommerge…
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