Lunedì 18 Novembre 2024

Cuffaro da detenuto: «Il carcere è storia di anime: riabilitazione, non vendetta»

Lo Stato con la Legge e il Giudice, mette le persone che hanno sbagliato, e non solo queste, in carcere, facendole evadere dal mondo. Il carcere, però, non è storia di corpi ma di anime. Il detenuto non può essere considerato e, peggio ancora trattato, come un animale da governare, un oggetto da sistemare, conservare e nascondere, uno sconfitto da castigare, a cui farla pagare. È un uomo che va rispettato anche se non ha avuto rispetto, e forse ancora non ne ha. È un uomo da capire soprattutto se nulla fa per essere capito, da aiutare anche se non vuole, o è riluttante a chiedere aiuto, é un uomo da indurre alla speranza se è disperato, da amare anche se sa solo odiare. Il detenuto è uno sconfitto della vita, e come ogni sconfitto subisce il declino del suo destino, trascurato dallo stesso potere pubblico che lo ha condannato e condotto a espiare la pena in una immorale carcerazione, che lo porta a una degradazione psicologica e materiale, camuffata da false e illusorie prospettive di rieducazione sociale, o risocializzazione che dir si voglia. La privazione della libertà, vissuta in condizioni e luoghi deprecabili, snaturati, miserevoli e inumani, senza possibilità di idonee e congrue soluzioni, se non di qualche inutile banale rappezzatura, mi spinge a ripensare alla validità della scelta del carcere come forma di espiazione della pena. Se lo Stato pensa di aver vinto la sua guerra mettendo in carcere degli uomini che hanno sbagliato e che hanno perso, non ha vinto, ha perso anche lui insieme ai perdenti. Vincerebbe se riuscisse a impedire la sfida, a rimuoverne le cause, e a essere clemente se non riuscisse a impedirla. Non è vincere né sentirsi a posto con la coscienza, questo deserto che lo Stato crea per difendere «pace sociale e sicurezza», è vendetta. Ed è ancora più grave e penoso perché lo Stato fa tutto questo «in nome del popolo», per dare a qualcun altro la responsabilità della sua incapacità. Si potrebbe dare, alle persone che si sono macchiate di alcuni reati, (senza portarle in carcere, né prima, né durante, né dopo il processo), la possibilità di lavorare con l'obbligo di lasciare allo Stato parte del salario, facendo così pagare il prezzo dei loro errori. Questo sarebbe ottemperare realmente all'art. 27 della Costituzione, perché sarebbe opera di rieducazione e di restituzione del reo alla società; sarebbe soprattutto una scelta dello Stato di comportarsi da padre per i suoi figli più difficili e bisognosi, ma non un padre cattivo che esercita la sua vendetta. Il tempo del carcere, che pur possiede una sua feroce forza, lascia la (non indeterminata) possibilità di riflettere per capire di quale vita potranno godere gli occhi e l'anima, cosa si dovrà fare per poter scegliere cosa fare di essa, per poter uscire da uomini liberi, quando il rischio più grande è tornare ad essere succubi degli errori del passato. Il carcere non è storia di corpi ma storia di anime e di spiriti. Quando lo Stato e la società lo capiranno, solo allora le condizioni dei detenuti in carcere potranno migliorare.

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