Il recente discorso di papa Francesco ai dipendenti di Tv2000 costituisce un’importante occasione per interrogarsi sul ruolo che i mezzi di comunicazione hanno avuto in questi anni e possono avere in futuro nella nostra società.
Se è vero, infatti, che la crisi del nostro Paese – e non solo di questo – va ben al di là dei fattori strettamente finanziari ed economici, perché investe la sfera etica e quella più ampiamente culturale, nessuno può fare a meno di assumersi le proprie responsabilità e meno che mai quanti operano in un settore, come quello dell’informazione, da cui dipende in larga misura l’orientamento dell’opinione pubblica.
Su due punti ci sembra che la riflessione del pontefice si sia polarizzata. Il primo riguarda le modalità della comunicazione.
Due pericoli Francesco ha evidenziato a questo proposito: quello di “riempire” e quello di “chiudere”.
«Si “riempie” quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano».
Oggi il problema non è, come in passato, la scarsità di notizie e la loro lentezza nel raggiungere i destinatari, ma esattamente quello opposto: ne abbiamo troppe e si succedono a velocità vorticosa, frastornandoci e impedendoci di discernere ciò che davvero è importante da ciò che lo è di meno o che non lo è affatto. Si può essere estraniati dalla realtà non solo per un difetto di messaggi, ma anche per un eccesso.
Quello che il papa stigmatizza, però, non è solo la quantità, ma la qualità di tanta parte dell’informazione: non c’è solo un eccesso, ma anche un modo di trasmettere i messaggi che li riduce a slogan, formule già impacchettate, frasi fatte, volte più a colpire e condizionare psicologicamente le persone che a farle riflettere.
Allora la comunicazione non mira a mettere l’altro in rapporto con dei fatti e dei problemi reali, aiutandolo a porsi correttamente le domande, ma a manipolarlo dandogli già le risposte. In questo senso, ha notato Francesco, in questi anni «spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell’economia e della tecnica».
L’altro pericolo, strettamente collegato al precedente, è quello di “chiudere”.
«Si “chiude” quando, invece di percorrere la via lunga della comprensione, si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità».
È in gioco sempre la tentazione di «correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale». Impedendo di cogliere i punti essenziali delle questioni e di avere uno sguardo critico, «una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva» tende a scaricare su singoli personaggi tutte le colpe o tutti i meriti, rinunziando ai chiaroscuri che costringerebbero a fare delle distinzioni.
Nascono così i “mostri” di cui l’opinione pubblica ha bisogno per esorcizzare i propri demoni e distogliersi dalle proprie responsabilità. E nascono i “miti” mediatici, osannati da eserciti di fans che proiettano su di loro i propri sogni irrealizzabili e in propri desideri inappagati.
Il secondo punto toccato dal papa nel suo discorso riguarda non le modalità, ma i contenuti della comunicazione giornalistica. Sotto questo profilo, egli ha indicato tre “peccati” che offuscano il suo stesso significato: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Degli ultimi due è evidente la gravità morale: calunniare qualcuno e diffamarlo sono colpe che hanno un preciso riscontro sia nell’etica che nel diritto e chi ne è vittima può far valere le proprie ragioni anche davanti a un tribunale.
Dei tre peccati, però, ha osservato Francesco, «nella comunicazione, il più insidioso è la disinformazione», perché «spinge a dire la metà delle cose, e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà».
Vale qui ciò che dice il Vangelo: «La verità vi renderà liberi».
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