Lunedì 23 Dicembre 2024

Isis, a farne le spese di nuovo i curdi

Ormai al centro della guerra contro l'Isis c'è il popolo curdo, 30 milioni di individui sparsi tra Turchia, Siria, Iraq ed Iran, che da un secolo cercano invano di diventare nazione. Ma il loro sogno continua, anche in questo momento, a scontrarsi con troppi interessi e, se gli jihadisti completeranno la conquista della loro città di Kobane al confine tra Siria e Turchia, potrebbe risolversi in un nuovo, spaventoso bagno di sangue. La situazione è - sotto molti aspetti - paradossale. I curdi iracheni, che dopo la caduta di Saddam si sono ritagliati una fetta di Iraq in cui godono di larga autonomia, hanno contribuito in maniera decisiva a fermare l'offensiva dell'Isis verso Baghdad, hanno ricevuto e continuano a ricevere armi dagli Stati Uniti e da numerosi Paesi europei - Italia compresa - e sono considerati una componente essenziale della grande coalizione che dovrebbe sconfiggere il Califfato. I curdi siriani, che pure lottano con altrettanto valore contro l'Isis, ma stanno per essere sopraffatti, sono stati invece praticamente abbandonati a se stessi per non contrariare Ankara, che li considera alleati del Pkk, gli insorti che per trent'anni hanno messo a ferro e fuoco le sue province orientali. La Turchia ha schierato appena al di là del confine, a un tiro di fucile dalla Kobane assediata, una divisione corazzata, ma non ha mosso un dito per fermare l'offensiva degli jihadisti, comportandosi esattamente come l'Armata rossa che nel 1944 si fermò per due mesi sulla riva orientale della Vistola mentre i tedeschi soffocavano nel sangue l'insurrezione dei nazionalisti polacchi a Varsavia. Gli americani, dal canto loro, hanno lanciato alcuni attacchi aerei contro i 9.000 miliziani dell'ISIS lanciati all'assalto della città, ma hanno ammesso a priori che non basteranno a salvarla. Ci sono fondati timori che quando Kobane, ormai occupata per metà, cadrà definitivamente, gli jihadisti stermineranno i 4.000 combattenti curdi - tra cui ben mille donne - che l'hanno difesa strada per strada. I precedenti dei villaggi cristiani e yazidi non autorizzano molte speranze in proposito. Ma questa ennesima strage avrà conseguenze politiche molto più gravi: riaccenderà il conflitto, attenuatosi negli ultimi tempi dopo aver fatto 30.000 morti, tra Ankara e il Pkk, ansioso di vendicarsi per lo sterminio dei suoi fratelli e il divieto ai suoi uomini di correre in soccorso di Kobane. Nei giorni scorsi, ci sono già state manifestazioni di protesta in varie località della Turchia orientale, con una ventina di morti. Il presidente Erdogan, che pure negli anni scorsi aveva avviato con un certo successo negoziati con il Pkk, rischia di pagare caro il suo ambiguo comportamento, non solo sul piano interno, ma anche su quello internazionale. Sia gli Usa, sia la Ue, si stanno infatti domandando se la Turchia sia un alleato affidabile in questa guerra, o non persegua fini diversi da quelli della coalizione. Erdogan infatti è un Sunnita che appoggia tuttora sia i Fratelli Musulmani, sia i terroristi di Hamas, e adesso sembra privilegiare gli sforzi per abbattere il regime di Assad su quelli necessari per sconfiggere il Califfato. Per questo, condiziona la sua collaborazione alla creazione da parte dell'America di una zona-cuscinetto tra il suo Paese e la Siria, in cui addestrare forze per lottare contro il regime e accogliere i profughi: un impegno che Obama né vuole, né può prendersi se non si vuole fare risucchiare completamente nel conflitto. Come andrà a finire, nessuno lo sa - qualcuno pensa addirittura a un'uscita della Turchia dalla Nato - ma una cosa è già certa: i curdi perderanno un'altra volta la partita.

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