PALERMO. Come la ninfa Eco, la radio è voce. Da novant'anni è un racconto fatto, appunto, di voci - anche quella dell'uccellino che sanciva il «passaggio» da una stazione all’altra, da Roma a Milano, ad esempio - ma anche di musica e suoni. Se dopo l'invenzione del telegrafo e del telefono spariva la distanza e iniziava l'epoca delle comunicazioni immediate, la radio, anch'essa eliminatore di distanze, aggiunse un nuovo elemento: una voce facile da diffondere in tutte le case che si costruisce attorno a persone che si mettono in gioco con voce e pensiero all'interno di quell' immaginaria scatola parlante. Così da 90 anni, dalle 21 del 6 ottobre del 1924. «Tutti i media hanno ridotto e poi annullato le distanze, è il loro ruolo», dice il semiologo Gianfranco Marrone. La quasi centenaria radio ce l'ha fatta a non essere legata alla triste sorte di sembrare d'antan, come accade ancora per un vecchio televisore, un vecchio telefono cellulare, un vecchio computer.
Possiamo complimentarci per la longevità della vecchia signora?
«Direi di sì, ha superato indenne quegli anni ’80 in cui, in tempi di edonismo reaganiano, e con lo strapotere della televisione, veniva considerata morta».
Se andiamo indietro nel tempo...
«Ha cambiato faccia, voce, ruolo sociale. È stato il mezzo attraverso cui i grandi totalitarismi degli anni ’30 hanno costruito la loro fortuna. Ma penso anche a Radio Londra, che trasmetteva pure in italiano, e che la sera si ascoltava di nascosto per avere un punto di vista non fascista sulla guerra».
Saltiamo agli anni ’70, quelli delle radio libere.
«Un ruolo liberatorio, il loro. Si è creato un grande entusiasmo per un mezzo che non era strumento del potere, ma arrivava dal basso. Poi la radio è diventata involontariamente politica: negli anni ’90 la televisione era di destra e la radio di sinistra; non era vero, ma così veniva vissuta perché chi era al potere possedeva numerose televisioni».
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