Lunedì 23 Dicembre 2024

C’è chi difende i privilegi

Raccontano che Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro e padre dello Statuto dei Lavoratori, poco prima di morire avesse avuto un incontro con Gino Giugni, giovane esperto del ministero e autore materiale del testo. Stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli della legge che sarebbe stata approvata dieci mesi dopo la scomparsa del ministro: «Gino mi raccomando – fu l’esortazione finale - fai in modo che lo Statuto dei Lavoratori non divenga lo Statuto dei Lavativi». Bisogna partire da questo ricordo per cogliere il senso dello scontro che oggi divide Matteo Renzi e Susanna Camusso. Già allora la sinistra riformista (Brodolini militava nel Psi) aveva ben chiaro che stava per diventare legge della Repubblica un meccanismo che avrebbe potuto creare privilegi inaccettabili. Esattamente il rimprovero che il premier rivolge al capo della Cgil. Lo Statuto dei lavoratori, e segnatamente l’articolo 18 che impedisce i licenziamenti individuali per motivi economici e organizzativi, rappresenta una grave lesione della parità dei diritti dei lavoratori: ne attribuisce troppi al personale impiegato nelle aziende con oltre 15 dipendenti e troppo pochi (o quasi nessuno) a quelli delle aziende minori che invece rappresentano la stragrande maggioranza del sistema produttivo italiano. Ma c’è di più. Con il passare degli anni le disparità si sono accentuate ma il sindacato è rimasto roccioso nella scelta di difendere la cittadella dei super-protetti. Incurante del fatto che fuori dal castello non c’erano solo i lavoratori delle imprese minori ma fioriva la selva del precariato pagato poco e pagato male. Una moltitudine crescente di italiani, in maggior parte giovani, ai quali il sindacato non ha mai prestato alcuna attenzione. Basta un dato: ci sono le confederazioni dei meccanici, quella dei chimici, del commercio e via elencando: come mai non c’è una confederazione dei precari? Per la semplice ragione che il sindacato ha preferito restare a guardia della cittadella blindata dei privilegiati scambiando consenso e potere. Renzi ha annunciato l’intenzione di radere al suolo al castello. Speriamo che ne abbia la forza e la convinzione. Dovrà superare ostacoli enormi a cominciare dalla minoranza del suo stesso partito che, saldandosi con la Cgil, ha fatto diventare l’articolo 18 un totem. Un’immagine sacra coperta dal manto dell’ideologia. Ma come mai Bersani, Fassina, Ferrero non si rendono conto di una realtà semplice: il Pd ha raggiunto il 40% dei consensi solo quando ha rotto molti ponti con il passato. Per esempio la concertazione, per esempio il diritto di veto dei sindacati sui governi, per esempio le faticose mediazioni a Palazzo Chigi in stanze piene di fumo e di gente? Una domanda: come mai l’Italia che ha il sindacato più forte d’Europa e la sinistra al governo si trova a fronteggiare un tasso di disoccupazione elevato e soprattutto crescente? Altre casomai, dovrebbero essere le battaglie. Non la difesa blindata dell’articolo 18 ma una riforma del welfare che garantisca il lavoratore e non il posto di lavoro. A cominciare dalla riforma della cassa integrazione. Un meccanismo perverso che offre tutele deboli se licenzia un’aziendina con tre o quattro dipendenti. Viceversa consente ai dipendenti di Alitalia di godere di un sussidio di sette anni. Ha senso tutto questo? Non ne ha. O perlomeno finisce con averne uno che si collega alla patologia in cui il sindacato si trascina nel paese. È una struttura potente tutelata dallo Stato che finanzia i patronati, nonché dalle leggi che gli garantiscono entrate automatiche attraverso le trattenute in busta, che perdono progressivamente il contatto con la società reale, che sono lontani, sempre più lontani, dai giovani e dai loro disagi. Non difendono il lavoro ma gli interessi dei propri iscritti. In questo modo né il sindacato e né il Paese possono andare lontano.

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