I capi di Stato e di governo dei 28 che oggi si incontrano per fare un primo bilancio delle «europee» si trovano davanti a un bel rompicapo: come scegliere un presidente di Commissione che sia in grado nello stesso tempo di pilotare l'Unione attraverso un periodo tempestoso e di rispondere alle nuove, e spesso contrastanti esigenze di rinnovamento manifestate dagli elettori. In teoria, tutto sembra semplice. Il Partito popolare ha prevalso sul Partito socialista (grazie, soprattutto, ai voti dell'Europa orientale) e perciò il suo candidato, lo sperimentato lussemburghese Juncker, dovrebbe prevalere su quello socialista, l'arrembante e discusso tedesco Martin Schultz. Ma, rispetto al 2009, il PPE ha perso 60 deputati, e anche il PSE è andato sotto di nove e la «stampella» liberale del 13. In altre parole, l'establishment che finora ha fatto il bello e il brutto tempo in Parlamento spartendosi in pratica il potere è in forte declino, a tutto vantaggio di una pletora di partiti euroscettici vecchi e nuovi che difficilmente, nonostante gli appelli di una trionfante Marine Le Pen, riusciranno a fare blocco, ma che comunque occuperanno un quinto del Parlamento e saranno compatti nell'ostruzionismo a tutti i provvedimenti che approfondiscano l'Unione. Inoltre, la tabella uscita ieri sulla distribuzione dei seggi è ingannevole, perché quando l'assemblea si riunirà si prevede un gran rimescolio: per esempio, la Lega che finora faceva parte dei liberali si unirà al Fronte Nazionale, i conservatori britannici malamente battuti dall'UKIP potrebbe essere tentato di rientrare nel PPE e molti di coloro che oggi fanno parte del «misto» cercheranno una nuova collocazione. Per formare un gruppo ci vogliono 25 deputati provenienti da sette nazioni diverse e, grazie anche all'allargamento che ha portato a Strasburgo molti partitini prima sconosciuti, la nascita di nuove aggregazioni non sarà difficile.
In base al Trattato di Lisbona a designare il nuovo presidente della Commissione, sarà sempre il Consiglio dei ministri, ma tenendo conto delle indicazioni del voto; inoltre, per entrare in carica, il prescelto dovrà anche ottenere la maggioranza assoluta dei 751 deputati, e al momento l'unico modo di raggiungerla sembra una «grande coalizione» simile a quella che regge oggi la Germania. Tuttavia, la scelta sarà resa più complessa dall'esito di un voto che ha alterato consolidati equilibri premiando alcuni esecutivi in carica (Germania, Polonia, Ungheria e soprattutto Italia) o per i risultati ottenuti, o per le aspettative suscitate, e punendone severamente altri (Francia, Gran Bretagna, Spagna) al punto da togliere loro addirittura una parte di legittimità. Per esempio, i socialisti francesi, che avevano vinto presidenziali e legislative, sono ridotti a poco più di metà dei lepennisti, che nel Parlamento nazionale hanno appena due deputati; e nel Regno Unito l'eurofobo UKIP, che a causa del sistema elettorale uninominale, non ha un solo rappresentante alla Camera dei Comuni, ha trionfato prendendo più voti dei conservatori e dei liberali della coalizione di governo messi insieme.
La combinazione di tutti questi fattori ha finito con il favorire l'Italia, e non solo durante l'ormai imminente semestre di presidenza. Il PD, infatti, fornirà il maggior numero di deputati al gruppo socialista (perfino più della SPD tedesca), potrà rivendicarne la presidenza e vantarsi di avere salvato il PSE da un rovescio abbastanza inspiegabile, vista l'impopolarità dell'attuale Commissione egemonizzata dai Popolari. Nello stesso tempo, Forza Italia ed NCD restano indispensabili per garantire la maggioranza al PPE. L'augurio è che i rappresentanti che ci apprestiamo a mandare a Strasburgo sappiano approfittare di queste circostanze per contribuire a modificare la politica dell'Unione nella direzione richiesta dalla nostra economia.
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