I soldi per gli stipendi sono finiti. Trentamila retribuzioni non arrivano; i Comuni si impallano tra debiti e precari; i servizi pubblici sono in stallo. Eppure si fa credere che l'ennesimo artifizio di bilancio possa ancora rappresentare una soluzione. Come un moderno aereo da caccia in combattimento disperde nel cielo piccoli frammenti metallici, sperando che attraggano il missile che li tallona, allo stesso modo si creano mille falsi bersagli, per distogliere l'attenzione pubblica e rimuovere un problema divenuto ormai dramma immanente.
La crisi, però, questa volta colpisce il cuore della amministrazione regionale, mettendo fuori gioco un modello anacronistico che maldestramente ha spacciato come ammortizzatore sociale ciò che era becero assistenzialismo.
In Sicilia la galassia dei servizi pubblici non è un riferimento di efficienza. Ospedali, musei, siti archeologici, centri di formazione, tutela del territorio, smaltimento dei rifiuti, trasporti di massa, forniture idriche, non hanno mai dato vita a modelli funzionali, ma quantomeno riuscivano a fornire un simulacro di servizio, garantendo la mission sociale: pagare gli stipendi; e, nella Sicilia che subisce tutto, l'acqua a settimane alterne poteva essere tollerata. L'autobus con frequenza occasionale poteva ancora essere accettato; ma ora (vedi Messina) non passa più. Tutto questo non ha solo portato all'azzeramento dei fondi per gli investimenti e le opere pubbliche, ma ha inciso profondamente la coscienza collettiva, intorpidendo le motivazioni dei giovani ed annebbiando l'orizzonte dei meno giovani, con la falsa prospettiva di una «vita felice» dove nessuno è chiamato ad onorare il debito del proprio dovere ma resta a credito di presunti diritti.
Come a volte capita, la società metabolizza i problemi prima delle istituzioni; e così l'Istat disvela una realtà inattesa. Nell'arco degli ultimi dieci anni, i dipendenti pubblici in Sicilia sono diminuiti di circa trenta mila unità (solo statali), mentre quelli privati sono aumentati di quasi cento mila; segno di una vitalità che malgrado tutto sopravvive. Purtroppo però il danno è fatto, ed il fragile sistema siciliano non è in grado di fronteggiare il mostro della spesa pubblica e trovare risorse per dare forza ad una alternativa socio-economica.
Può essere sufficiente salvare il «posto» ma non pagare gli stipendi? Forse per poco tempo; ma ora anche questa scelta non regge più. Si può parlare di una crisi contingente? La risposta è no. Nessuno può illudersi che la spesa pubblica possa ancora reggere ai colpi convergenti di entrate calanti ed uscite costanti. Perché governo e forze politiche tacciono? Non c'è consapevolezza o fa difetto la capacità di analisi e di soluzione?
Siamo alla svolta di una crisi generale ed irreversibile. La strada è quella di una profonda riforma del sistema, della quale purtroppo non siamo neanche ai prodromi. Eppure manca l'alternativa all'avvio di riforme idonee a sganciare la pubblica amministrazione dal ruolo improprio di datore di lavoro, per aprirsi ad una nuova stagione nella quale il «pubblico» si impegni a creare le condizioni perché il lavoro lo possa garantire il «privato». A dispetto di quanti fanno fatica a credere che il sole sia già tramontato, è solo il mercato che, pur con i suoi limiti e le sue mille fragilità, può prospettare un futuro ai siciliani. A meno che qualcuno non continui a pensare che possa ancora pagare un Pantalone ormai... «sfondato».
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