Siamo tornati alle liti fra comari. La definizione non è legata al fatto che protagoniste siano due ministre donne come Stefania Giannini e Marianna Madia. A grandi liti fra comari abbiamo assistito annche fra ministri uomini e l'effetto negativo era lo stesso. Scontri di questa natura erano tipici della Prima Repubblica: rimase famoso quello fra Beniamino Andreatta e Rino Formica definito «commercialista di Bari». Aver riportato cosi indietro l'orologio dei partiti non è certo un vantaggio per la democrazia. Nessuno, infatti, nega il diritto di ciascun membro del governo di esprimere le sue idee. Tuttavia la decenza istituzionale imporrebbe che il confronto restasse chiuso all'interno del consiglio dei ministri. Esprimerlo pubblicamente serve solo a indebolire l'immagine dell'esecutivo. E di polemiche intestine questo governo non ha proprio bisogno. Già ha moltissimi nemici esterni (molti dei quali nella sua stessa maggioranza). Se aggiunge anche le fratture interne finisce per dare ragione ai «gufi e ai frenatori» come li chiama il premier.
Certo non rende un buon servizio al Paese un governo che si presenta diviso alla vigilia di appuntamenti essenziali come l'abolizione del Senato e la riforma del mercato del lavoro. Tanto più che lo scontro di ieri ha avuto come oggetto proprio il personale dello Stato. Marianna Madia, come titolare della Funzione Pubblica, che propone il pensionamento anticipato di 85 mila colletti bianchi per far posto a un po' di giovani. Stefania Giannini, ministro dell'Istruzione che invece mette lo stop perchè l'esperienza non può essere umiliata. Che abbia ragione una o l'altra non è molto importante. A condizione però che un ministro non si traformi nel sindacalista del proprio dicastero. Da questo punto di vista non si può dimenticare che Stefania Giannini ha alle spalle una lunga carriera universitaria. E allora un dubbio: quando diventa lo scudo degli statali (compreso il personale della scuola) difende gli interessi del Paese o è molto sensibile ai richiami del suo mondo di rifermento vista la resistenza di «baroni» e rettori a lasciare i rispettivi incarichi per la pensione?
La lite fra i due ministri, rimette al centro del dibattito la necessità della riforma istituzionale per dare maggiori poteri al Presidente del Consiglio. Oggi, infatti, il capo del governo è solo un «primus inter pares»: nomina i ministri ma non ha il potere di dimissionarli come invece può fare qualunque sindaco o presidente di regione con un membro di giungta. Da questo punto di vista Matteo Renzi aveva più poteri a Palazzo Vecchio che a Palazzo Chigi. Uno squilibrio che, per il bene della democrazia, andrebbe sanato al più presto.
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