«Terminato il G7, sono a Roma per lavorare sui nostri dossier: Province, Senato, Titolo V, Cnel, scuole»; così twittava nelle prime ore di ieri il premier Matteo Renzi, magari pensando al percorso ricco di insidie che gli si para davanti. E puntualmente, da lì a poche ore, governo e maggioranza avrebbero subìto una bocciatura in Commissione, proprio mentre si votava il disegno di legge di riforma delle province.
Sul piano dei numeri che hanno determinato due volte la bocciatura del governo, ha pesato la posizione del parlamentare di maggioranza Mario Mauro, che ha motivato la rinuncia al voto con una questione di presunta incoerenza costituzionale del disegno di legge in esame; probabilmente i cultori del «dietrologismo» potrebbero fare risaltare, piuttosto, il nesso tra l'assenza politica e la delusione umana di un ex ministro rimasto fuori dalla nuova compagine governativa. Ma difficilmente il tema delle riforme resterà circoscritto alla posizione dei singoli.
Il nostro Paese è chiamato ad affrontare uno snodo delicatissimo, dovendo montare un complesso puzzle di riforme costituzionali che mette assieme, in maniera tra loro indissolubile, Province, Senato, Titolo V, scuole, fisco e lavoro; senza dimenticare ovviamente la legge elettorale.
Dopo l'ubriacatura del federalismo all'italiana e la messe di scandali nelle regioni, il controllo della finanza territoriale è divenuto nevralgico. Da qui la riscrittura delle province. Ma la nuova legge elettorale, la cui urgenza non è da meno, incrocia pericolosamente altri grandi temi, a cominciare dal superamento del bicameralismo perfetto. Rischiamo infatti che in caso di elezioni, vincitori risultino due coalizioni di partiti diversi; un ossimoro istituzionale come lo ha definito qualcuno. L'incidente parlamentare sulle province non lascia molto spazio all'ottimismo. E' una politica anacronistica quella che si chiude ad un percorso di riforme nella tutela di micro, e qualche volta indicibili, interessi. E non a caso la bocciatura in Commissione ha riguardato una questione «nobile» qual è appunto quella dello stipendio del presidente della provincia.
Ma il tema ora diventa politico e schiude orizzonti incerti. Siamo a registrare le prime bordate sulla riforma delle province e sono stati appena sfiorati gli interessi dei piccoli potenti locali; e che cosa ci dovremo aspettare, quando dal microcosmo provinciale passeremo al cerchio magico dei potenti regionali e nazionali? Che cosa ci propinerà la politica quando dagli «orticelli» dell'interesse su piccola scala passeremo al «latifondo» dove si coltivano gli interessi, su scala ben diversa, dei grandi boiardi di Stato e dei politici di lungo corso? Non potremmo dire se l'emolumento di oltre 850 mila euro sia congruo per l'amministratore delegato di Ferrovie dello Stato; ma certo il modo di porsi del manager, che ha rinunciato al silenzio per minacciare l'abbandono dell'incarico in caso di riduzione del suo stipendio, evoca per le riforme una strada a dir poco impervia.