L’incontro di Papa Francesco con i familiari delle vittime della mafia - il primo, nella storia! - costituisce una tappa significativa nel cammino che ha portato la Chiesa a prendere sempre più chiara coscienza del proprio ruolo nella lotta contro la violenza della criminalità organizzata.
È vero quello che ha detto don Ciotti: a lungo è mancata la denunzia del fenomeno mafioso da parte della Chiesa. Per lunghi decenni il problema non è stato da essa avvertito nella sua reale portata. E non c'è da meravigliarsene. Nell'Ottocento, dopo la conquista di Roma, il nuovo Stato italiano, governato da una ristretta élite fortemente anticlericale, era percepito come un nemico comune dalla Chiesa e dalle popolazioni meridionali, che si trovarono alleate nell'opposizione alle leggi introdotte dai piemontesi. Ben lungi dall'essere un valore, agli occhi di molti la legalità rappresentava, in quel contesto, solo una diversa forma di violenza. Fu facile per la criminalità organizzata camuffarsi da espressione della cultura popolare, adottare le sue forme di religiosità e sfruttarne le ambiguità per instaurare un potere parallelo, apparentemente più rispettoso, nei confronti della Chiesa, di quello ufficiale, anche se in realtà, da sempre (la vecchia mafia «nobile» di cui talora si favoleggia non è mai esistita!), nemico dell'uomo e quindi anche di Dio.
Né, quando tramontò lo Stato liberale risorgimentale, poteva favorire una evoluzione positiva il passaggio a quello fascista, ben più deciso nel combattere la mafia, ma nella logica con cui un potere dittatoriale ne combatte un altro che gli dà ombra. Per un'alleanza tra la Chiesa e lo Stato a difesa della legalità è stato necessario attendere l'avvento della Repubblica, dove i cattolici non erano più emarginati, ma addirittura al governo. E neppure allora si comprese subito la gravità del fenomeno mafioso. Non lo comprese la Chiesa, ma neppure la società civile. Si suole citare l'affermazione del cardinale Ruffini che negava l'esistenza della mafia. Meno spesso si ricorda che, ancora nel 1955, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, ritenuto il vertice della gerarchia mafiosa siciliana, potesse scrivere in una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l'opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (...) ha affiancato addirittura le forze dell'ordine (...) Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività».
Pura follia? Nella sostanza sì. Ma anche un segno dell'assai minore visibilità che aveva, allora, la pericolosità della criminalità organizzata. Certo è che l'altissimo magistrato non fu costretto, dopo una simile presa di posizione, alle immediate dimissioni, come accadrebbe oggi. E se quello era il clima culturale diffuso, forse anche dal cardinale Ruffini non ci si poteva attendere, su questo punto, una lucidità di giudizio che mancava ai tutori della legge.
Ormai è sotto gli occhi di tutti quanto le cose siano cambiate. La mafia - anzi, le mafie - sono ormai viste per quello che sono, organizzazioni criminali che soffocano la vita delle persone e lo sviluppo della società. E la Chiesa ha decisamente contributo, con le chiare prese di posizione sia del cardinale Pappalardo sia di tanti altri vescovi del Mezzogiorno, a questa presa di coscienza. L'assassinio di padre Puglisi ha evidenziato e consacrato definitivamente questa scelta di campo.
C'è da chiedersi, tuttavia, in che misura, nella concreta esperienza quotidiana, sia la società civile che la Chiesa riescano davvero a dar vita a mentalità e a stili di comportamento alternativi alla cultura che sta dietro il fenomeno criminale in senso stretto. Perché, dietro coloro che fanno parte delle organizzazioni di Cosa Nostra, della Sacra corona Unita, della ’ndrangheta, della camorra, e che possono essere ovviamente definiti dei delinquenti, c'è una cultura. E questa cultura è in realtà condivisa e alimentata, anche al di fuori di queste organizzazioni, da tanti che non sono ritenuti, né si ritengono, dei fuorilegge. In questo terreno la mafia affonda le sue radici profonde, da esso attinge la forza per superare le sconfitte che le sono state inflitte dallo Stato in questi ultimi anni.
Troppo spesso ancora, al di là delle condanne teoriche, manca nelle comunità ecclesiali una vera educazione a una mentalità e a uno stile autenticamente evangelici, un'educazione capace di evidenziare che il dio dei mafiosi e il Dio di cui parla il Vangelo, sono in insanabile contrasto tra di loro. E che chi serve il primo - anche se magari viene da tutti considerato rispettabile, vive nei quartieri bene e ha posti di prestigio -, non può essere cristiano. Perciò è importante che papa Francesco, che dall'inizio del suo pontificato non si è stancato di richiamare i cristiani alla coerenza con la loro fede in tutti i campi della vita, sottolinei oggi, pubblicamente, che i mafiosi, se non si convertono, andranno all'inferno e che il Dio di Gesù Cristo e la sua Chiesa stanno, senza riserve e senza esitazioni dalla parte delle loro vittime.