Matteo Renzi interpreta con convinzione sempre maggiore il ruolo del sindaco che ha occupato il Palazzo del demolirlo. Le incursioni sul territorio, cominciate mercoledì a Treviso, si faranno sempre più frequenti. Il premier lascia al suo braccio destro Delrio – ex sindaco anche lui – le conferenze stampa istituzionali (come ha fatto ieri) riservandosi quelle che non hanno come interlocutori i giornalisti,come i suoi interventi in parlamento non sono rivolti a deputati e senatori: Renzi parla direttamente ai cittadini, cita la signora Giulia e il signor Mario, si mette nei loro panni e si rivolge al Palazzo sollecitandogli risposte pratiche a tamburo battente. E poiché ormai di quel Palazzo il presidente del Consiglio è l’inquilino principale, fattasi la domanda deve dare la risposta. Il fascino, il rischio – o se volete l’incoscienza – della sua sfida sta proprio nell’impegnarsi a fare in pochi mesi quel che i suoi colleghi non hanno fatto in anni. Berlusconi e Prodi, D’Alema e Amato,Monti e Letta erano tutt’altro che degli incapaci, ma le loro buone intenzioni si sono impigliate in un groviglio di resistenze – vuoi degli alleati, vuoi della macchina burocratica – che hanno fatto uscire da ogni quintale di olive messe nel frantoio del Potere soltanto mezzo litro d’olio e non sempre di buona qualità. In Italia le cose ragionevoli non si fanno in tempi ragionevoli: bisogna aspettare che l’acqua arrivi a un millimetro dalla bocca per cominciare a nuotare. L’unica vera riforma del governo Monti – quella sulle pensioni – fu approvata con sole tre ore di sciopero generale perché le diverse consorterie del Palazzo che l’avevano frenata per decenni erano anestetizzate dalla crisi finanziaria.
Oggi lo spread è a un terzo di allora, ma la crisi finanziaria è stata sostituita dalla più acuta crisi economica e sociale della nostra storia moderna. Renzi perciò deve colpire prima che qualche refolo di ripresa possa suggerire alle correnti trasversali del Palazzo una sosta nella corsa riformatrice. Come avvenne nell’estate del 2011, quando il Parlamento provò a depotenziare i drammatici provvedimenti imposti al e dal governo Berlusconi dopo che Mario Draghi aveva smorzato i primi assalti speculativi. Tutti sappiamo come andò a finire ed è consigliabile non riprovarci.
Digitando i 140 caratteri di un tweet, Renzi ieri ha annunciato che il piano per il lavoro (il famoso “Jobs Act”) sarà il primo provvedimento del suo governo per arginare l’ «allucinante» dato sulla disoccupazione, il peggiore dal ‘77. Se per assumere i giovani (e perché non anche i quarantenni e cinquantenni rimasti a spasso?) si dovesse rinunciare ai vincoli dell’articolo 18, il valore simbolico dell’operazione sarebbe enorme. Ma poiché è anche vero che se non c’è ripresa dei consumi interni le nuove assunzioni saranno modeste, con o senza l’articolo 18, ecco che conta rimettere in circolo un po’ di soldi.
Si vedrà in quanto tempo, grazie all’operazione Cassa Depositi e Prestiti, saranno rimborsati alle imprese i 60 miliardi di crediti; si capirà come saranno divisi tra riduzione dell’Irap e dell’Irpef i dieci miliardi messi da Renzi sul tavolo; si vedrà la consistenza del fondo di garanzia per le piccole e le medie imprese; si valuterà l’efficacia dell’attacco alla burocrazia interna e alla sordità europea. Insomma, don Matteo ha quattro mesi di tempo per assicurarsi un primo, bel finale come quelli che puntualmente accompagnano il suo collega televisivo. Ma fino all’ultima sequenza, terremo tutti il fiato sospeso...