Tempi duri per la filosofia. Si parla di una sua esclusione dalle tabelle disciplinari di vari corsi di laurea, come quelli di Pedagogia e di Scienze dell'Educazione. Inoltre, una conseguenza del ventilato progetto di ridurre la durata delle scuole superiori da cinque a quattro anni comporterebbe automaticamente il suo ridimensionamento a soli due anni.
Per la verità il problema è più vasto e coinvolge in generale il rapporto tra discipline tecnico-scientifiche e discipline umanistiche. In questi ultimi anni, nell'ambito universitario, si sono affermati un clima culturale e una conseguente politica che privilegiano in modo quasi esclusivo le prime, emarginando le seconde. Non si tratta soltanto di un problema teorico: questa impostazione determina conseguenze precise per quanto riguarda i finanziamenti per la ricerca, l'assegnazione dei posti di docente, le prospettive di sviluppo dei singoli dipartimenti universitari. Perfino l'individuazione dei requisiti necessari per accedere alle risorse si ispira ormai sempre di più al modello che abbiamo definito «tecnico-scientifico», in cui la scienza si riduce a sua volta ad essere funzionale alle applicazioni pratiche e, in ultima istanza, al mondo produttivo.
Si capisce che, in quest'ottica, la filosofia sia destinata ad essere progressivamente liquidata dal panorama educativo, visto che essa sembra rappresentare in modo emblematico l'apparente distacco del mondo umanistico dalla concretezza della vita quotidiana, in rapporto al quale invece tante altre forme di sapere sono più utili.
Ma è così sicuro che solo le cose «utili» siano importanti? Per definizione, ciò che «serve», ciò che è «utile», non conta di per sé, ma esclusivamente in vista di altro. È un mezzo, non un fine. Nessuno vuole un martello o un trattore per goderseli. In sé non varrebbero nulla, sono solo strumenti per realizzare qualcosa che invece importa. Anche se di fatto capita che questo «qualcosa» sia, a sua volta, un altro mezzo, cercato in vista di qualcos'altro, e così via, al punto da dimenticare di chiederci se, tra tante cose utili, ce ne sia una, nella nostra vita, che valga la pena di cercare per se stessa, che non sia cioè, soltanto un mezzo, ma un fine.
Ci sono, però, nella vita, esperienze che ci mettono a contatto con qualcosa che vale di per sé. Una di queste è l'amicizia. Qui la logica dell'utile è inadeguata. Se una persona dicesse ad un'altra che la considera sua amica perché può averne dei vantaggi, la deluderebbe profondamente. E, quando (come a volte accade) questa è la realtà, non esitiamo a parlare di un «falso» amico. Ma, oltre all'amicizia, ci sono altre cose che non potranno mai rientrare nella categoria dell'«utile». La bellezza, per esempio. Un'opera d'arte vale in sé e tutti possiamo convenire che ridurre la «Gioconda» di Leonardo o la «Pietà» di Michelangelo al valore pecuniario che potrebbero avere sul mercato sarebbe squallido. La stessa considerazione si può fare per la giustizia, per la verità, per il bene. Non sono mezzi, non «servono» a niente. Ma noi esseri umani abbiamo bisogno di queste cose - «inutili», perché sono importanti di per sé - più che di tutte quelle che sono «utili». Perché sono queste a dare senso e valore alle altre.
Perciò l'insegnamento delle discipline umanistiche, che si occupano di bellezza, di verità, di giustizia e di tante altre cose «inutili», è essenziale, specialmente in una società che vede lo sviluppo esponenziale della scienza e della tecnica, non «contro» queste ultime, ma per consentire loro di essere valorizzate nei loro aspetti non puramente strumentali - c'è una «bellezza» anche nei prodotti della tecnica - e soprattutto di essere utilizzate al servizio dell'uomo in tutta la ricchezza del sua umanità. Tra le «due culture», umanistica e scientifico-tecnologica, non è necessario scegliere. La verità è che l'una senza l'altra sarebbe incompleta, e viceversa. E svilire la prima significa, specialmente per il nostro Paese, che proprio in essa ha da sempre la sua peculiarità e il suo punto di forza, una scelta miope e autolesionista.
Questo vale in modo particolare per la filosofia. Pur non essendo in grado di fornire ricette pratiche, operative, per il successo, essa esprime, da sempre, il tentativo degli esseri umani di comprendere il senso della loro vita. Si potrà dire che nella società attuale quello che conta sono altre cose: trovare un lavoro, fare carriera, far soldi, avere esperienze affettive gratificanti. Ma questo ai nostri giovani lo gridano tutti i giorni la tv, i giornali, l'esempio degli adulti. La scuola ha anche il compito di costituire un'alternativa alle mode dominanti e di aiutare i giovani ad aprire gli occhi su quegli aspetti della realtà che sfuggono alla logica del profitto e del consumo. E oggi l'esperienza alternativa per eccellenza è riflettere sul senso - nella duplice accezione di «significato» e di «direzione» - della corsa sfrenata che ci vede proiettati verso mille cose utili, per cercare di scoprire se, oltre ad esse, ce ne siano anche di «importanti», per cui valga la pena di vivere.
È questo che i filosofi hanno fatto e che, studiandone il pensiero a scuola, si cerca di suscitare nei giovani. Certo, questo li può rendere pericolosamente critici nei confronti delle mode, dei miti, delle menzogne, dei giochi illusionistici su cui si regge tanta parte della nostra società e di cui si avvalgono tanti meccanismi di potere. Forse per questo l'insegnamento della filosofia all'università e nelle scuole dà fastidio. Induce a porsi delle domande, a pensare. Perciò esso costituisce, agli occhi di molti, una minaccia, da disinnescare con la facile derisione. Ma proprio a causa di ciò esso è anche, agli occhi di alcuni, il fragile appiglio per sperare che possiamo costruire un mondo diverso.
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