Il decimo anniversario della nascita di Facebook richiama diverse considerazioni. Una scaturisce dalla constatazione che Mark Zuckerberg, il ragazzo, allora ventenne, a cui si deve la sua invenzione, è oggi uno degli uomini più ricchi del mondo. Ed è solo un esempio, tra i tanti, di ciò che può significare lavorare in una società dove la crisi del «posto» appare sempre più irreversibile. La storia dell'inventore di Facebook ci ricorda che il lavoro non coincide con il posto di lavoro, come noi italiani - e soprattutto noi meridionali - siamo abituati a pensare.
Lavorare significa innanzi tutto essere capaci di interpretare creativamente la realtà in cui si vive, facendone emergere i potenziali bisogni umani e mettendoli in relazione con le risorse, altrettanto potenziali, offerte dall'ambiente naturale e sociale. Perché le risorse, in sé, non esistono: esse diventano tali solo se qualcuno le collega a esigenze, che anch'esse ancora non sono attuali. Il petrolio, originariamente, era solo un denso e maleodorante liquido vischioso che, là dove affiorava dalla terra, creava problemi. Solo quando si è pensato di metterlo in rapporto al bisogno di benzina (anch'esso, peraltro, mai percepito prima), è diventato una preziosa risorsa.
È questo che ha fatto Zuckerberg: ha colto un bisogno che era nascosto e l'ha messo in relazione con delle potenzialità, anch'esse oscure, presenti nella rete. E, oltre a essere diventato un multimiliardario, ha cambiato il mondo.
Si potrà obiettare che queste sono esperienze eccezionali. In questa forma estrema, sì. Ma il concetto di «lavoro» che abbiamo esposto può essere riscontrato nelle più comuni situazioni, se non altro per contrasto. Ognuno di noi sa, a sue spese, cosa significa cadere nella mani di un burocrate che, invece di mettere in rapporto il bisogno del cittadino con le potenzialità delle leggi e dei regolamenti, svolge la sua funzione seguendo meccanicamente le procedure. O anche di un semplice operaio che, nello svolgere un'attività manuale, invece di ragionare su ciò che effettivamente servirebbe al committente, si limita ad eseguire in modo automatico ciò che gli era stato detto di fare, anche quando ciò porta a effetti controproducenti.
Un lavoro degno di questo nome è sempre un'operazione intensamente umana, che esige inventiva e passione. E l'esempio di Zuckerberg può essere ancora più significativo in una terra come la nostra, dove molti guai derivano dal fatto che il posto a volte addirittura sembra esonerare dal lavoro e dove - con qualche rara eccezione - manca un senso creativo dell'imprenditorialità.
Ma qual è il bisogno che l'inventore di Facebook ha saputo intuire e fare emergere? Semplificando, potremmo dire che è quello della relazione, in una società dove gli individui sono sempre più esposti alla solitudine. Fino a sessanta, settant'anni fa, molte persone vivevano ancora l'appartenenza a comunità forti, che le coinvolgevano e, anche se le condizionavano pesantemente, permettevano loro di non sentirsi sole. La famiglia, la Chiesa, la patria, per alcuni il partito, erano realtà comunitarie in cui ci si riconosceva e in funzione delle quali a volte si era capaci di sacrificarsi.
Oggi non è più così. Le istituzioni a cui si accennava sono in profonda crisi. La figura del single sta diventando, nel mondo occidentale, il modello umano prevalente. Si è molto più liberi da vincoli, anzi spesso non se ne hanno più affatto. In questo modo, molti inconvenienti, legati a un'eccessiva dipendenza dalle rispettive comunità, sono stati lasciati dietro le spalle, insieme al peso della responsabilità che un'appartenenza comporta. Oggi sono ben pochi i giovani che fanno dipendere il loro destino affettivo e professionale dalla volontà dei genitori, meno ancora quelli che sono disposti a dare la vita per la patria o per il partito, e nella stessa Chiesa si registra una forte tendenza degli individui a dare una interpretazione autonoma della propria fede. Però il costo di tutto ciò è il venir meno di quella rete di relazioni, rassicurante e feconda, entro cui si cresceva.
L'idea geniale che sta dietro Facebook è di tentare di coniugare indipendenza e compagnia, creando una comunità virtuale in cui si possono avere tanti «amici», senza sentirsi però vincolati e senza dover rispondere di quello che si dice e si fa. I rapporti umani così sono salvati, anzi moltiplicati, ma non creano legami. Sono solo virtuali. Quando si vuole, per qualsiasi motivo, li si può chiudere, escludendo gli altri dalla propria vita senza quel pesante prezzo di imbarazzo, di spiegazioni, di resistenze, che accompagnano abitualmente la rottura di quelli tra persone in carne ed ossa.
E anche mentre si mantengono queste relazioni, ci si può dedicare ad esse come e quando lo si desidera, senza impegno, mostrando all'altro il volto che si è scelto di lasciargli vedere, anzi, a volte, assumendone uno del tutto inesistente. Quello che da sempre è un rischio dei rapporti umani - ridursi a un gioco in cui si esibiscono solo le rispettive maschere (Pirandello!) - ora diventa possibile nella normalità. Ed è immensamente meno faticoso per tutti.
In questo modo, Facebook ha risolto dei problemi. È vero, però, che ne ha creati altri. Perché questo modo di vincere la solitudine rischia di renderla solo invisibile e perciò più pericolosa. Un'anestesia collettiva non rende meno drammatica la malattia. La comunità virtuale può essere un surrogato che nasconde, ma che non può colmare l'assenza di comunità reali. E una libertà che diventa assenza di responsabilità verso i propri interlocutori produce quei frutti avvelenati di violenza e di volgarità che in questi giorni abbiamo tutti sotto gli occhi. La rete è veramente una risorsa, ma non può esaurire la sfera della relazionalità. Solo così la si può usare bene. L'ammirazione per Zuckerberg rimane. Chi sa lavorare cambia davvero il mondo. Ma la direzione di questo cambiamento la decidono coloro che si avvalgono del suo lavoro, e che possono orientarne il frutto in modi molto diversi.
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