La rivoluzione in Egitto ha compiuto tre anni e li ha celebrati, se si vuole, in uno stile molto appropriato: con violenze, disordini, repressione, decine di morti, migliaia di arresti. Magari in dimensioni un po' superiori alle attese, ma non si può dire che quest'ultimo, sanguinoso sviluppo fosse inatteso. In tre anni questa terra antichissima ha prodotto, o subito, una quantità e una frequenza di «rivoluzioni» da avvicinarla a un primato storico.
Quello che si festeggiava ufficialmente o almeno per i primi minuti, nelle piazze del Cairo, di Suez e di tante altre città era l'abbattimento di una dittatura militare, quella impersonata da Mubarak.
Ma nel frattempo, fra il suo abbattimento in una atmosfera di entusiasmo che parve generale, Il Cairo ha vissuto, oltre agli inevitabili disordini che accompagnano le rivoluzioni, un breve regime di «democrazia diretta», l'abbattimento dei privilegi che alle forze armate venivano da un lungo regime militare di cui Mubarak era solo l'emblema, a libere elezioni con la partecipazione di tutte le forze politiche antiche e recenti, alla conquista del potere da parte di un antico partito islamista le cui basi erano e sono il contrario di quelle di una normale democrazia, poi di nuovo la violenza nelle piazze, infine la rivincita dei soldati sui civili e la restaurazione di un regime militare non molto dissimile da quello di Mubarak. Con le conseguenze anche simboliche: il vecchio dittatore gallonato ha subito la vergogna e la barbarie di essere trasportato in barella davanti al tribunale, un semicadavere ridotto al proprio ritratto ed ora è, o almeno fino all'altro giorno era, sulla strada della revisione del processo e di una sostanziale riabilitazione. E soprattutto ha potuto avere notizia dell'instaurazione al potere di un suo collega, successore, imitatore ed erede. A processo ci è andato invece Morsi, leader degli integralisti che alla conta numerica hanno trionfato nelle elezioni comportandosi poi ben presto, una volta insediati al potere, da regime «forte».
Dopo Mubarak, dunque, un interregno collettivo in uniforme, poi un regime più o meno «islamico», infine di nuovo l'esercito. Il prossimo passo di «formalizzazione» (che non è proprio sinonimo di normalizzazione). Le cerimonie organizzate per il terzo compleanno dell'Egitto «liberato» hanno finito col ricalcare, nei contenuti ma anche visibilmente, regie e scene di allora. Migliaia di persone sono scese in piazza, ma non per festeggiare la dipartita dell'ex dittatore bensì per plaudire al nuovo, plebiscitariamente. Qualcuno non l'ha capita o ha finto di non capirla e ha organizzato manifestazioni di protesta e di rivendicazione nel governo Morsi, ora in carcere in quella che si potrebbe definire la stessa cella di Mubarak. L'«equivoco» è stato presto chiarito da un massiccio intervento delle «forze dell'ordine» con conseguenze non nuove certo sulla scena del Tarihr: morti a dozzine e arresti a migliaia. È stato chiarito una volta di più che al Cairo c'è un nuovo boss, quel generale Abd al-Fattah Khalil al-Sisi che si era tenuto abbastanza dietro le quinte nelle prime fasi convulse ma che poi ha mostrato chiaramente di possedere un «pugno duro» e di essere disposto ad usarlo.
I tumulti degli ultimi due giorni lo hanno convinto, semmai, a fare ai dissidenti un'apparente concessione: l'anticipo dell'elezione presidenziale come seconda tappa del cammino di formalizzazione del regime. La prima era stata, pochi giorni fa, il referendum, alias plebiscito. La seconda doveva essere il rinnovo del Parlamento, sciolto dopo l'ultimo colpo di Stato. La terza, il coronamento, l'elezione del presidente. Adesso invece l'ordine si inverte e, prima di scegliere i legislatori, si incoronerà il capo dello Stato. A breve scadenza, con un nome ancora più scontato: Abd al-Fattah Khalil al-Sisi. Sarà così ribadito chi è davvero a comandare. L'Egitto non è e non diventerà una democrazia parlamentare. I dibattiti continueranno, ogni tanto, ad essere tenuti nelle piazze. Non è l'Egitto, del resto, il Paese della Primavera Araba?