E ora anche Facebook deve far fronte a una class action, in cui è accusato di intercettare i messaggi privati per vendere informazioni a chi fa pubblicità. Un’analoga iniziativa in sede legale era stata promossa contro Google, alcuni mesi fa, da alcune agenzie europee che difendono la privacy, per il mancato rispetto delle norme relative alla protezione dei dati personali.
Si badi bene: non sono in gioco soltanto problemi giuridici. Queste vicende giudiziarie ci costringono a riflettere sul ruolo che ha assunto la «rete» nella vita di milioni di persone, e a prendere coscienza - se già non lo abbiamo fatto - delle grandi opportunità che essa ci garantisce, ma anche dei pericoli a cui ci espone.
Un aspetto indubbiamente rivoluzionario, in senso positivo, è l'annullamento delle distanze spaziali che fino a ieri avevano reso problematica la comunicazione tra le persone. Portando a compimento un processo iniziato con l'invenzione del telegrafo e proseguito con quella del telefono, la comunicazione via Internet ha consentito a più di due miliardi di individui - tanti sono i suoi utenti - di scambiarsi quotidianamente informazioni, messaggi personali, fotografie, filmati, senza muoversi dalla propria casa, creando un unico immenso ambito relazionale che abbraccia l'intero pianeta. L'utopia di una comunità universale, capace di superare le barriere fisiche, politiche, culturali che la rendevano di fatto una mera astrazione, sembra adesso realizzarsi di fatto grazie alle nuove tecnologie.
Questo si applica in particolare a Facebook, strutturato in modo da creare tra i suoi utenti una comunicazione che vada oltre il piano puramente funzionale dell'informazione e coinvolga la sfera relazionale in ciò che ha di più personale. Non per nulla chi vi entra stabilisce un rapporto di «amicizia» con altri utenti della rete e viene messo in condizione di seguirne la vita attraverso le notizie, riflessioni, le immagini che essi inseriscono nella propria «bacheca», oltre che di comunicare con loro in tempo reale. Su Facebook si possono far conoscere i propri gusti letterari e musicali, le proprie tendenze politiche, ma anche i propri momenti di gioia e quelli di depressione, gli eventi singificativi in cui si è coinvolti o semplicemente la cronaca «in diretta» di un qualunque episodio senza importanza. Si possono ritrovare vecchie conoscenze e stabilirne di nuove. Si può litigare aspramente o innamorarsi.
Insomma, un mondo, una vita, anche se virtuali. E si capisce perché tante persone preferiscano abitare questo mondo e vivere questa vita, che costituiscono uno specchio, ma anche un'alternativa al mondo e alla vita in cui realmente si trovano immerse. Qui i confini si allargano, si può essere visti da tutti, si ha l'impressione di non essere soli. In una società dove spesso le strade dei singoli procedono parallele, dove a volte ci si trova a essere stranieri l'uno all'altro, dove a nessuno sembra importare di nessuno, Facebook dà la possibilità di incrociare le vite degli altri e sentirsi, anche se virtualmente, in comunicazione con loro.
Non è solo un problema di solitudine. Nella nostra civiltà di massa, molti sentono il bisogno disperato di essere visti - per esempio apparendo, anche per pochi istanti, almeno una volta nella vita, in televisione - per essere sicuri di esistere. La nostra vicenda ci sembra a volte quella di una formica nera, in una notte buia, che arranca su un terreno scuro. Lo sguardo degli altri ci fa uscire da questo anonimato, dandoci la sensazione di una partecipazione che implica anche un riconoscimento.
Eppure, proprio questo meccanismo nasconde un pericolo mortale. Quello di sostituire la propria effettiva realtà con quella dell'immagine virtuale che proiettiamo per gli altri, ma forse in primo luogo per noi stessi, e di confondere la dimensione dell'essere con quella, puramente narcisistica, dell'apparire. «Esistere significa essere visti», sosteneva un filosofo inglese del Settecento. In questa filosofia sta il volto oscuro di Facebook. Invece di vivere effettivamente, in tutta la loro profondità e intensità, esperienze che richiedono intimità, silenzio, pudore (ce n'è uno che non riguarda il corpo, ma l'anima), si pensa subito a condividerle col maggior numero possibile di spettatori. Senza rendersene conto, si rischia di trasformare la propria esistenza in uno spettacolo.
Anche le relazioni possono risultarne falsate. È stato spesso notato, giustamente, che il termine «amici», usato in questa sede, è fuorviante. Ancora una volta, le relazioni virtuali - immensamente più facili e meno impegnative di quelle faccia a faccia - possono diventare il surrogato di queste e dare l'illusione di avere una vita relazionale riuscita.
La class action che ora viene mossa contro Facebook non fa che portare alla luce, nelle sue estreme conseguenze, la contraddizione tra una esigenza di identità e di autenticità, che richiederebbe privacy, e l'esposizione pubblica a cui si fa ricorso per garantirla, entrambe e contemporaneamente promosse da questo social network. Proprio qui, dove si insegue la promessa di essere veramente se stessi, si scopre - se l'accusa è vera - la commercializzazione dell'intimità. Ma è solo l'estremo paradosso di una situazione che già esiste nel funzionamento ordinario di Facebook, senza bisogno di immaginare prevaricazioni. L'identità non può essere realizzata e tutelata esibendola maniacalmente agli occhi altrui. E che oggi questo avvenga a livello di massa ci costringe a interrogarci su noi stessi, sul nostro presente, ma soprattutto sul nostro futuro.