Oggi alle 22 comincia il blocco delle merci annunciato dal movimento dei forconi e da altre sigle minori dell'autotrasporto; secondo gli organizzatori il blocco dovrebbe protrarsi fino al 12 dicembre, ma si prefigura un'azione ben più dirompente, con l'astensione dal lavoro fino al prossimo Natale. Vogliamo approcciare le rivendicazioni dei Forconi con lo spirito distaccato della cronaca, rinunciando a giudizi e ad opinioni, nonostante il cipiglio degli organizzatori che non stanno lesinando slogan come «9 dicembre l'inizio della fine», oppure «voglia di demolire il sistema» o ancora «dittatura moderna della oligarchia di potere». Nella cronaca della protesta annunciata si pone un problema di contenuti ed uno di metodo.
Cominciamo dai contenuti. Obiettivamente nel profluvio di parole che accompagna l'annunciato blocco dei rifornimenti non è agevole isolare richieste proprie della categoria, mentre abbondano i riferimenti politici al sistema che si vorrebbe demolire. Le motivazioni che animano le richieste dei forconi sostanzialmente si riducono a tre: la lontananza della politica dalla gente comune, la diffusa precarietà economico-lavorativa ed il regime fiscale troppo stringente. Lasciamo però da canto i primi due punti che, pur legittimi ed in qualche misura anche condivisibili, caratterizzano un movimento di ispirazione politica piuttosto che uno orientato alla tutela di una categoria professionale. Andando invece allo «stringente regime fiscale», si scopre che oggetto degli strali dei forconi non è la tassazione specifica degli autotrasportatori, ma l'intero sistema fiscale a cominciare dall'ultima nata, la Tares. Posto che a nessuno piace una tassa che peraltro si accompagna ad un'altra miriade di imposte, bisogna tuttavia riflettere anche su una questione non secondaria. La Tares è un tributo istituito per coprire i costi di smaltimento dei rifiuti. È quindi una risorsa essenziale per l'equilibrio finanziario dei Comuni e va a coprire i costi di un servizio indispensabile. Certo si può disquisire sul peso di questo tributo o sul modo di ripartirlo tra i cittadini; il tema di fondo secondo i forconi sembra però un altro: impossibile fronteggiare un carico fiscale ormai insostenibile. Ma qui rischiamo di cadere nel gioco dei massimi sistemi, perché dovremmo spostare l'attenzione su temi come l'enorme debito pubblico italiano esploso negli ultimi dieci anni, sui costi straripanti della macchina pubblica e, perché no, anche sui costi della politica e dei relativi apparati. Tuttavia siamo certi che ci stiamo ancora muovendo nel recinto delle legittime rivendicazioni di una categoria?
Niente di male, per carità, ad occuparsi anche di questi temi, ma allora bisognerebbe cambiare giacchetta ed indossare quella di un movimento politico, specie se le rivendicazioni si estendono, magari con crudezza di termini, a contestare «una classe dirigente (quella romana ndr) che vota contro il taglio delle pensioni d'oro» o a ricercare intese con i «grillini» o rifiutare il rigore tedesco o magari ad auspicare il ritorno alla lira. Inutile dire, tanto per fare un esempio, che proprio il taglio delle pensioni d'oro con la prossima legge di stabilità andrà a finanziare proprio le categorie più deboli. Il tema è un altro e guardiamo quindi al metodo della protesta.
Nello scorso autunno le organizzazioni che raggruppano le quasi 190 mila imprese italiane dell'autotrasporto hanno aperto una vertenza con lo Stato, conclusasi positivamente con la firma di un protocollo il 28 novembre scorso. In sintesi il protocollo prevede «agevolazioni sul prezzo del gasolio da autotrazione», «rispetto dei tempi di pagamento», riduzione del costo del lavoro (Inail) e apertura di un tavolo ministeriale sui «problemi specifici delle Isole»; il protocollo prevede anche una revisione dei divieti di circolazione festiva ed una diversa disciplina della circolazione in caso di eventi meteorologici avversi. Il protocollo, sottoscritto appena dieci giorni fa dagli autotrasportatori, prevede infine l'intervento in Europa per il miglioramento, in senso ancora più favorevole all'Italia, di alcuni nodi critici: il «cabotaggio» ed il «distacco transnazionale». Proviamo a sintetizzare. Gli interessi in ballo nel trasporto merci sono enormi; è sufficiente transitare dalle parti del Brennero o di Tarvisio o del traforo del Frejus per avere un'idea parziale del numero impressionante degli automezzi in entrata o in uscita. Il modo, quindi, di disciplinare alcune delicate questioni come la verifica dei tempi di guida e di riposo, i limiti di carico, il modo di entrare nel mercato, il costo del lavoro, consentono agli autotrasportatori, specie se piccoli come tanti «padroncini» meridionali, di vivere o piuttosto morire.
Oggi che in Europa gli automezzi ed i carburanti hanno costi livellati, portare carichi maggiori, accorciare i tempi di riposo o pagare assai meno l'autista come accade (legittimamente) in alcuni Paesi membri dell'Europa orientale, può fare infatti una differenza enorme; ecco perché ad esempio è sostanzialmente proibito svolgere a tempo pieno attività di autotrasporto in un Paese membro (cabotaggio); basti pensare, ad esempio, ad un autotrasportatore romeno che decidesse di entrare nel business dei trasporti delle primizie ragusane. Ecco perché il confronto deve restare in sede tecnica e nella cornice europea. Forse, in conclusione, sarebbe meglio occuparsi di questi temi che interessano la categoria - come anche la sicurezza di tutti - e rinunciare alla promessa che «se ci saranno i numeri (quelli di una massiccia adesione, ndr), la battaglia non sarà più sul costo della benzina, ma per una nuova legge elettorale».