Vale ancora la pena scrivere sul fenomeno delle occupazioni studentesche? Me lo sono chiesto e mi sono risposto che, malgrado tutto, è giusto che certe ragioni siano sempre di nuovo dette e ribadite, anche se, in questa società amante degli slogan e delle frasi fatte, ben pochi sono interessati a cercare di capirle, sia pure per contestarle con altre a loro avviso più valide.
Ancora una volta, dunque, mi sforzerò di spiegare perché non sono affatto convinto che occupare gli istituti scolastici sia un modo corretto di protestare e una forma di partecipazione democratica.
Una prima considerazione è che a monte delle occupazioni fatte dagli studenti - protagonisti ieri del corteo che ha paralizzato il centro di Palermo - sta la logica del possesso assoluto propria del bambino nei confronti del giocattolo: «Questo è mio!». La scuola non è solo di chi ci studia, ma anche di chi ci lavora: docenti, personale amministrativo, dirigente. Sequestrarla, con la pretesa di riappropriarsene dopo una ingiusta espropriazione, ed escluderne tutti gli altri che hanno esattamente lo stesso diritto di starci, è un atto di prepotenza infantile. E come tale viene di fatto tollerato dagli adulti, in attesa che i bambini perdano interesse al giocattolo.
Perché l'interesse viene meno, infallibilmente, dopo le vacanze di Natale. Allora, tutte le grandi dichiarazioni sull'impegno politico, tutte le iniziative per creare gruppi di studio, etc. etc., vengono frettolosamente abbandonate, per ripiegare su una squallida routine di interrogazioni e sulla corsa a recuperare i programmi, che esclude ogni sia pur timida ripresa delle velleità pre-natalizie. Come dire: dopo carnevale è normale che venga la quaresima. Ma questo significa, da parte degli studenti, avallare una scuola quaresimale, che si rinunzia a riformare seriamente per renderla continuativamente più umana, in cambio del piatto di lenticchie di un po’ di festa carnevalesca, travestita da occupazione. Chi scrive sa bene che nel nostro sistema scolastico ci sono gravi carenze formative, soprattutto sotto il profilo dell'educazione alla cittadinanza e alla coscienza politica. Ma per superare questo vuoto, il modo peggiore è puntare su una parentesi inevitabilmente circoscritta e ludica, che impedisce poi, per motivi di tempo (e per disinteresse di tutti) una continuità di impegno su queste tematiche, distesa lungo tutto l'anno. Non è forse un caso che un ventennio politicamente disastroso come quello della Seconda Repubblica abbia avuto protagonisti i cittadini formati dalla scuola delle occupazioni!
Le suddette occupazioni, infine, violano il diritto allo studio di chi ha solo la scuola pubblica per poterlo esercitare e potere così emergere. Molti dei ragazzi che oggi bloccano le lezioni (compromettendo anche quelle di domani, per la fretta e i ritardi) sono in grado di frequentare costosi corsi di inglese, di viaggiare in estate, di farsi una cultura in altri modi. Altri no. La scuola pubblica era la loro sola possibilità di qualificarsi e di concorrere alla pari con i privilegiati nella corsa al lavoro. Che essi siano eventualmente più capaci e preparati dei loro compagni ricchi sarebbe per loro l'unico modo di controbattere le logiche di una società che manda avanti i figli di papà. Ma, se la scuola non funziona o funziona a sprazzi, questa chance viene meno e tutto viene rimandato. A quando, a parità di ignoranza, sarà l'appoggio della famiglia influente a decidere nella gara per trovare un posto. Da questo punto di vista le occupazioni sono una sottile forma di lotta di classe. Dei ricchi contro i poveri. Ovviamente non consapevole, ma non per questo meno efficace. E meno ingiusta.
Qualcuno dirà che dimentico gli aspetti positivi. Sì, dopo quarantuno anni di insegnamento nei licei statali e decine di occupazioni, non riesco a ricordarne nemmeno uno, se non il senso di gioiosa libertà che pervade i corridoi di un istituto occupato, nei primi giorni. Ma non potrò mai rassegnarmi al fatto che questa gioiosa libertà sia assente nelle nostre scuole per tutto il resto dell'anno, barattata con questa, troppo a buon mercato, giocosa parentesi pre-natalizia.
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