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Omicidio-suicidio a Palermo, le colpe della solitudine

Ci sono storie che non si vorrebbe dover raccontare. E la tentazione di non parlarne, di lasciarle affondare nel silenzio e dimenticarle, è così forte, che a vincerla non basterebbe il dovere di cronaca - ma è poi così necessario che tutti si sia sempre informati di tutto? -, se non ci fosse anche, soprattutto, una segreta solidarietà che ci costringe a guardare in faccia il dolore senza speranza di altri esseri umani, per cui non possiamo fare nulla, ma che sentiamo di non dover abbandonare con la nostra indifferenza.
È quello che proviamo davanti alla tragedia consumatasi ieri in una strada della periferia della nostra città, in via Alberico Albricci, dove un uomo di 58 anni ha ucciso la sorella disabile, poco più grande di lui, e poi si è gettato dal sesto piano della sua abitazione. Quando gli agenti sono entrati in casa hanno trovato una lettera in cui la donna spiegava di aver chiesto lei di morire, perché estenuata dalla lunga malattia psico-fisica che la teneva inchiodata da anni su una carrozzina a rotelle. Il fratello alla fine le ha obbedito, ma non ha più trovato lui stesso le ragioni per sopravviverle.
Non è stato un dramma della miseria - l'uomo era un impiegato di banca - , né della passione (come tanti "femminicidi"). In questo caso non sembrano esserci colpe della nostra società da denunziare. Erano soli. Una solitudine che dev'essere stata tremenda, se, alla fine, è sembrata loro più accettabile la morte. I vicini concordano nel rilevare l'estremo riserbo di fratello e sorella e la loro tendenza a rimanere chiusi in casa, specie dopo la morte della madre. Probabilmente non avevano da chi andare. Ma forse non avevano neppure voglia di stare con altri. Perché questa è la solitudine: non riuscire più ad avere il desiderio di comunicare, anche con chi ci sta materialmente accanto.
Ieri, a Palermo, tanta gente cominciava già a festeggiare l'inizio del "ponte", magari col pretesto della (finta) ricorrenza di Halloween. Locali pieni, vetrine illuminate, persone che affollavano le strade parlando e ridendo. In tutto questo non c'è nulla di male. Nulla da denunziare. Ma non posso fare a meno di pensare a quei due morti di via Albricci nella cui povera vita non c'è stata festa, né ieri né forse mai. E di chiedermi quanti sono in questa grande città - come in tante altre, del resto - , gli uomini e le donne la cui esistenza grigia si consuma in una routine di solitudine, senza amicizia e senza gioia. Non ho soluzioni, non credo che sia colpa di nessuno. Ma non voglio cedere alla tentazione di distogliere lo sguardo, di gettarmi dietro le spalle quella disperazione, neutralizzandola nell'asettico linguaggio della cronaca. Resti, almeno, la pietà. Non so se lo devo ai morti, ma lo devo ai vivi che ne condividono il destino. E lo devo certamente a me stesso, per non dimenticarmi di essere un uomo.

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