Silvio Berlusconi aveva annunciato il ritiro della delegazione Pdl perché non voleva essere complice di un governo che innalza l’Iva. In realtà cercava solo di trovare una soluzione ai problemi legati ai suoi rovesci giudiziari. La tassa è arrivata ma il governo è rimasto al suo posto grazie anche al voto favorevole del Cavaliere. Silvio Berlusconi ha spiegato la scelta di tenerlo in vita condividendo le esigenze di stabilità esposte dal premier. Ma si tratta di un espediente per celare una sconfitta. Per la prima volta dopo vent’anni il Cavaliere non è più il capo assoluto e carismatico del centrodestra italiano. Prima dell’appuntamento parlamentare di ieri la sua strategia era molto precisa. Aveva bisogno di guadagnare tempo per due buoni motivi: ritardare arresto e interdizioni, cose mai piacevoli, per trovare il tempo di riorganizzare Forza Italia nella convinzione di poter andare al voto e vincere ancora una volta. Una scelta che guardava solo agli interessi di partito (anzi di una parte del partito, come poi venuto fuori), in contrasto evidente con quelli dell’Italia, della recessione che non passa e della disoccupazione che sale.
Non è un caso che il voto di fiducia al governo Letta abbia scatenato l’euforia dei mercati con la Borsa in volo e lo spread in picchiata. Questo dimostra che la strada scelta dal Cavaliere era un azzardo assai poco gradito all’elettorato moderato che rappresenta il nocciolo duro del Pdl.
Comunque tutto questo oggi non esiste più. All’interno del centrodestra si apre una resa dei conti dagli sbocchi molto incerti. Nelle crisi, talora o spesso, ci sono le condizioni per crescere. Ma c’è il rischio adesso che il centrodestra si trasformi in una frantumazione molecolare. L’Italia ha bisogno di uno schieramento forte e compatto per garantire l’alternanza di governo che rappresenta l’essenza di ogni moderna democrazia. Ma da ieri sera, sotto quel cielo, regna la massima confusione. Non si sa nemmeno quante siano le formazioni in campo. Il Pdl non più unito ma non è ancora diviso. Non è più quello che era ma non è chiaro quello che sarà. Non c’è una svolta politica ma un salto nel vuoto. Vedremo chi e cosa lo riempiranno.
Ora la palla passa in mano al Pd. È il vero vincitore del voto di ieri al Senato. Le sue divisioni e le contrapposizioni fra i leader di ieri e di oggi appaiono piccoli scontri condominiali a fronte dello tsunami atomico che ha colpito il centrodestra. Vedremo nelle prossime ore quali scelte saranno prese dal gruppo dirigente. Ha due strade davanti: lanciare la cavalleria alla ricerca dei superstiti del fronte avverso con l’obiettivo di cancellare ogni traccia di berlusconismo. Oppure pensare al futuro del Paese. Certo la tentazione dell’annientamento è forte: per la prima volta, dopo vent’anni, il Pd ha la possibilità di regolare i conti in via definitiva con il Cavaliere, lavando il ricordo di tanti segretari nazionali e aspiranti premier spazzati via dalle sue vittorie. Una strada non priva di trappole, però. Un’offensiva scalpitante spingerebbe inevitabilmente il fronte moderato ad accelerare i tempi della riorganizzazione. Inoltre potrebbero presentarsi problemi per il governo. Il Pd deve mostrare di avere a cuore il futuro del Paese. Il governo c’è. È più forte di prima. Deve essere messo in grado di svolgere il suo programma come lo ha esposto Letta. Le riforme istituzionali, in primo luogo quella elettorale, il taglio delle tasse (soprattutto quelle che gravano sul lavoro), la riduzione della spesa pubblica. Il senso del bene comune deve prevalere sull’egoismo dei partiti. Prediche inutili come diceva Luigi Einaudi? Forse, ma noi ci ostiniamo a pensare che il dovere dei partiti sia quello di fare il bene dell’Italia. Non tolleriamo una Politica che mette il Paese tra parentesi. Siamo convinti di non essere soli. Nel voto dello scorso febbraio, i venti di protesta hanno scompaginato la nomenclatura conosciuta dei partiti. Quel segnale non è servito a nulla? Sarebbe il caso che tutti riflettessero su questo.
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