Ancora morte nel Mediterraneo, un mare che sta diventando maledetto, come lo erano, nella prima guerra mondiale, certe montagne, sulla linea del fronte. Qui il fronte non è quello di un conflitto armato, ma ciò rende ancora più atroce la sua micidiale carica mortale. Gli stranieri miseramente annegati, ieri, sulla costa di Scicli, in provincia di Ragusa, non erano nemici venuti per farci del male: volevano solo aver parte alla nostra felicità, o almeno a quella che ad essi, nell'ottica degli esclusi, appariva tale. Venivano disposti ad accontentarsi delle briciole del nostro lauto banchetto di società opulenta, accettando in anticipo di essere trattati come intrusi, di affrontare il regime da lager dei nostri «centri di accoglienza», di rischiare il rimpatrio nelle loro terre di origine, dopo avere investito tutti i loro risparmi per pagarsi la traversata.
Tutto, pur di entrare nel nostro apparente Eldorado, lasciandosi alle spalle il loro mondo di miseria e di degrado.
No, questa non è una guerra, è una strage di poveracci. Ma la cosa più tremenda è che ad essa ci siamo ormai abituati. Anche perché non ci sono responsabili. Tranne i cinici «scafisti», i nuovi mercanti di schiavi che ammassano come bestie questi sventurati sulle loro carrette malsicure e, al minimo intoppo, li costringono a gettarsi in mare. Noi ci limitiamo ad assistere, leggendo le cronache dei giornali, innocenti di questo massacro. Perfino chi ha sostenuto la legge Bossi-Fini, e i successivi provvedimenti, perfino i fautori del metodo dei «respingimenti» (che la comunità internazionale ha condannato, perché violava il diritto umano di asilo), possono dormire la notte sonni tranquilli, perché hanno rassicurato la propria coscienza con lo slogan che abbiamo sentito ripetere tante volte in questi anni: giusto aiutare coloro che muoiono di fame, ma nei loro paesi, promuovendo lo sviluppo delle loro economie.
Forse avrebbero potuto anche informarsi se, mentre noi rigettavamo indietro i miserabili barconi carichi di uomini, donne e bambini, questo sforzo di solidarietà internazionale fosse effettivamente realizzato dal nostro governo. Avrebbero facilmente scoperto che in questi anni il contributo dell'Italia ai popoli in via di sviluppo, invece di aumentare per compensare i «respingimenti», è sceso vertiginosamente ai livelli minimi, facendoci diventare, sotto questo profilo, il lumicino di coda tra le nazioni industrializzate. Lo slogan era solo vuoto alibi per nascondere la realtà.
Quanto ai critici della politica seguita in questi anni dall'Italia nei confronti degli immigrati, essi meno che mai possono ritenersi responsabili di quanto sta accadendo nel Mediterraneo. Loro addirittura si sono sempre opposti a leggi che hanno definito «razziste», hanno sempre deprecato la linea dei «respingimenti», hanno denunziato il trattamento subito dagli immigrati nei centri di accoglienza. Cosa potevano fare di più? Perciò di fatto la maggior parte di loro e l'insieme dell'opinione pubblica - evidentemente con l'eccezione di coloro che dedicano a questo tema la loro passione e tutti i loro sforzi - si indigna, ma poi di fatto è polarizzata da altri temi, che appassionano molto di più.
Tutti innocenti, dunque, di questi morti. Non c'era - non c'è - nulla da fare. Mi torna in mente un episodio raccontato da un noto storico della Chiesa, padre Martina, che riferisce di aver trovato nel diario di un frate, cappellano su una nave di negrieri che portava il suo carico umano dall'Africa al Nuovo mondo, delle riflessioni riguardanti il viaggio. Il pio religioso esprimeva la propria preoccupazione perché la bonaccia aveva bloccato la nave da molti giorni e i viveri, ma soprattutto l'acqua, stavano diminuendo a vista d'occhio. E aggiungeva di ritenere necessario adottare qualche misura per affrontare il problema oggettivo che si era creato. Per esempio, quella di non dare più da bere agli schiavi. In questo modo, egli notava, i bianchi sarebbero stati salvati. «E se li mori moiano - concludeva - ci vuol pazienza».
Anche noi, quando arrivano notizie come quella di Scicli, scuotiamo tristemente il capo: «Sì, ci vuol pazienza». Su altri problemi ne abbiamo di meno. Sull'Imu, per esempio. Ma lì erano in gioco non delle vite di sconosciuti senza nome e senza volto, bensì le sacre «tasche degli italiani»! Oppure sulla decadenza di Berlusconi dal ruolo di parlamentare, che domina il dibattito pubblico da settimane...
È vero, nessuno, neppure chi scrive, ha soluzioni magiche da proporre per il problema delle migrazioni. Ma è squallido che esso venga di fatto tenuto in secondo (o forse in terzo, in quarto...) piano e che la morte in massa di migliaia e migliaia di persone conti assai meno, nei programmi delle forze politiche e al momento del voto, di altri che riguardano le nostre, pur legittime, sicurezze economiche.
Al tempo in cui la schiavitù era legale e praticata accadeva qualcosa del genere. Nessuno se ne scandalizzava troppo, anche se c'erano gli obiettori. Ma le ragioni oggettive apparivano così forti da rendere inutile perfino discutere la questione. E le discussioni vertevano su altro. Forse tra cento anni guarderanno alle nostre società «democratiche», così ossessivamente attente ai diritti umani dei bianchi e così indifferenti al destino di vita e di morte degli esseri umani di altro colore, con lo stesso orrore con cui noi guardiamo a quelle schiaviste. E avranno ragione.