È la scelta peggiore. Irresponsabile e folle come l’aveva definita il presidente di Confindustria nei giorni scorsi, quando i venti di crisi già soffiavano impetuosi.
Il vicepresidente del Consiglio Alfano ha dichiarato che non «ci sono più le condizioni» per la permanenza dei ministri del Pdl al governo, considerato che appare ormai inevitabile l'aumento di un punto dell’aliquota Iva. Giustificazione, in verità, un po’ fragile visto che l'operazione costa un miliardo per il 2013. Una cifra assolutamente modesta, considerando che la spesa pubblica ammonta a più di 700 miliardi. È mai possibile che da questo gigante non si riesca a tagliare un po’ di grasso per soddisfare il fabbisogno senza nuovi tributi? La giustificazione di Alfano appare addirittura pretestuosa, tenuto conto che la caduta del governo farà scattare la tagliola dell’Imu che, invece, era stata la bandiera elettorale del Pdl.
Le parole del vicepresidente del Consiglio diventano infine un fuoco fatuo considerando che dell'impegno del centrodestra sul fronte fiscale si è persa traccia. Le tasse sono sempre aumentate, anche quando a Palazzo Chigi c’era Berlusconi. Nessun programma credibile di riduzione delle spese. Quel poco che è stato fatto è merito di Monti. Le recenti proposte di Renato Brunetta sono, a ben vedere, semplici manovre contabili. Finanza creativa per eludere l’appuntamento con il bisturi con cui incidere sulla spesa pubblica.
La realtà, purtroppo, è un’altra e le tasse non c'entrano. La lettura dei fatti ci dice che il Pdl non riesce a separare le sorti del governo da quelle personali e giudiziarie del suo leader. Il problema è la giustizia. Non il fisco. Lo conferma il fatto che questo è il secondo governo che il centrodestra fa cadere. E tutte le volte in coincidenza con l'aggravarsi dei problemi giudiziari di Berlusconi. Era accaduto l'anno scorso con Monti. Ora con Letta. Stesso copione, identico disprezzo per le condizioni del Paese.
Ma in questa corsa verso l’abisso anche il Pd ha giocato la sua parte. Si è schierato dietro la bandiera della legalità, ma non sfugge che in realtà l’obiettivo era un altro. Si è dimostrato intransigente sui tempi della decadenza da senatore di Silvio Berlusconi ben sapendo che, comunque, era un appuntamento inevitabile. Fra qualche mese la Corte d'Appello di Milano si dovrà pronunciare sull'interdizione dai pubblici uffici del Cavaliere. Bastava aspettare e l'uscita dal Senato sarebbe arrivata automaticamente.
Invece il Pd ha chiesto il rispetto letterale della Legge Severino sui cui profili di illegittimità costituzionale si sono espressi molti giuristi. E Luciano Violante, esponente di punta del Pd e grande esperto di giustizia, ha sottolineato che è nelle prerogative del Cavaliere il ricorso alla Corte costituzionale, perchè rientra nella «legalità» il diritto di difesa. Il dubbio è forte: l'eventuale decadenza del Cavaliere, infatti, sarebbe riferita a reati commessi prima dell'entrata in vigore della norma. La retroattività della legge penale è vietata da tutti i codici moderni. Prima di tutto dalla nostra Costituzione che molti, a sinistra, considerano la più bella del mondo. Stavolta, però, hanno preferito ignorarla. In ogni caso, sarebbe stato un gesto di responsabilità verso il Paese accogliere la richiesta del Cavaliere e interrogare la Corte costituzionale. Il Pd, compattamente, si è messo di traverso chiedendo a gran voce che la giunta per le elezioni del Senato si pronunciasse subito.
Perché? Solo il rispetto della legalità? Sulle colonne di questo giornale Bruno Vespa ha riferito un retroscena non smentito e anzi confermato in non pochi interventi televisivi. E cioè che l'intransigenza del Pd non c'entra nulla con la giurisdizione. Solo la volontà di poter presentare al proprio «popolo» lo scalpo del nemico storico spacciandolo per una propria vittoria e non come la conseguenza inevitabile dell'azione dei giudici. Insomma la legalità sta al Pd come il fisco al Pdl. Manovre per catturare il consenso identitario. Opportunismi di schieramento fatti sulla pelle del Paese: mentre la ripresa economica rischia di sparire, mentre lo spread torna con la sua danza macabra, mentre i mercati ci guardano con preoccupazione e i partner europei con autentico terrore perché la caduta dell'Italia rischia di mandare l'euro in frantumi.
Ora toccherà a Giorgio Napolitano tentare una soluzione. Il vecchio presidente è ormai il solo nume tutelare cui gli italiani possono fare appello. Il solo che abbia a cuore gli interessi nazionali. Anche se, per tutelarli, in questi difficili passaggi della crisi, avrebbe dovuto essere più esplicito. La politica è sequestrata dagli interessi di parte. Occorre un colpo d’ala e nelle attuali condizioni può venire solo dalla nostra istituzione più alta. Che non si impantani nel gioco degli equilibri che ormai reggono sempre meno all’urto dei fatti. Non bisogna uscire solo da una crisi di governo o da una crisi politica. Ma da una crisi istituzionale sempre più visibile.
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