È del tutto evidente che un nuovo aumento dell’Iva determinerà una contrazione dei consumi e un conseguente peggioramento ulteriore del Pil. E nessuno comprende ancora che prima d’ogni cosa bisogna aggredire la montagna della spesa pubblica.
Non so di quali elementi di valutazione disponga il ministero dell'Economia ma appare del tutto evidente che un ulteriore aumento dell'IVA di un punto percentuale a partire dal primo ottobre determinerà un'ulteriore contrazione dei consumi interni e un conseguente peggioramento del PIL. Il rapporto debito/PIL, che è salito di dieci punti negli ultimi 15 mesi, è destinato a veleggiare verso il 140%, una soglia limite dopo la quale c'è la bancarotta. L'aumento dell'IVA sembra inevitabile per raggiungere il pareggio di bilancio ed evitare di ricadere nella procedura d'infrazione prevista dalle regole europee.
È sconcertante notare come nessuno sembri avere una piena consapevolezza della gravità della situazione, compreso il governo in carica. Si discute su come reperire qualche miliardo, limando da una parte piuttosto che dall'altra o accrescendo qualche tassa o accisa ritenuta più indolore di altre. Non si riesce a comprendere che per cogliere la ripresa dei mercati internazionali il Paese deve riconquistare quella fiducia in se stesso che ha perduto da tempo e che ciò non può avvenire senza una scossa molto forte che renda a tutti evidente l'avvio di una reale inversione di tendenza. Da vent'anni a questa parte la nostra produttività segna il passo e non abbiamo ancora capito che il nostro fondamentale problema sta nella sempre più urgente necessità di trasferire risorse dall'area improduttiva a quella produttiva dell'economia. Da questo punto di vista la generalizzata abolizione dell'IMU sulla prima casa, se pur va nella direzione opposta a quella necessaria, è un errore marginale rispetto all'incapacità di aggredire la montagna della spesa pubblica se non con i «pannicelli caldi» della cosiddetta spending review.
Da più parti essa viene giustamente intesa come lo studio attento di tutti i capitoli della spesa pubblica in termini di efficienza ed efficacia ma nessuno si rende conto come la lunga durata di questo processo sia del tutto incompatibile con il segnale che bisogna dare al Paese. Non occorre la bilancina del farmacista ma la mannaia dello spaccalegna. Penso a una serie di decreti legge che accompagnino una manovra di finanza straordinaria costruita su quattro capisaldi: blocco e taglio della spesa; drastica e immediata riduzione del cuneo fiscale e una campagna di investimenti pubblici nei settori ad elevata domanda indotta; reale e brutale semplificazione dei processi amministrativi, a livello centrale e locale, che abbiano a che fare con la crescita economica; parziale nazionalizzazione del debito e prolungamento della sua scadenza media.Il primo decreto dovrebbe bloccare per i prossimi tre anni la spesa pubblica al livello di quella consuntivata nel 2013; ridurre del 15% il costo degli acquisti di tutto il settore pubblico, imponendo ai fornitori per legge questo vincolo;introdurre nella sanità i costi standard invalicabili, la somministrazione dei medicinali monouso, la soppressione dell'assistenza universale per i ceti più abbienti.
Il secondo dovrebbe trasferire i risparmi sulla spesa a compensazione di una drastica riduzione delle tasse sul lavoro da attuare in non più di tre anni e di un programma di investimenti pubblici diffusi sul territorio per il risanamento ambientale e il recupero delle aree urbane più degradate. Il terzo dovrebbe ridurre al minimo tutte le procedure amministrative collegate agli investimenti pubblici e privati sul territorio, sopprimere le conferenze di servizi e le reiterate delibere dei consigli comunali, dando ai sindaci più ampi poteri decisionali e prescrivendo rigorose sanzioni per i dirigenti politici e amministrativi che non rispettano le scadenze.
Il quarto dovrebbe istituire un grande fondo pubblico nel quale conferire gli immobili e partecipazioni dello Stato a garanzia di un prestito decennale da riservare ai cittadini italiani, remunerato al tasso di inflazione. La stessa cosa dovrebbero fare i grandi comuni con il proprio patrimonio immobiliare e mobiliare per ridurre il costo del proprio indebitamento. L'enunciazione di questi provvedimenti non ha alcuna ambizione di essere esaustiva. Vuole soltanto sottolineare l'urgente necessità di un cambio di passo che contribuisca a sollevare gli italiani dal senso di frustrazione e di sfiducia che da troppo tempo li affligge. La principale incognita risiede nella capacità di questo governo di muoversi con la determinazione e il coraggio che oggi non ha e forse non potrà mai avere. La stabilità non serve a nulla se serve soltanto e nella migliore delle ipotesi ad attuare una politica economica fatta di interventi utili ma poco incisivi.
Serve ancor meno se è soltanto il frutto di compensazioni reciproche tra i partiti che compongono la maggioranza di governo in esito ad una sfibrante contrapposizione. Quanto è accaduto sull'IMU e potrà accadere sull'IVA sembra dimostrare che stiamo facendo una politica economica senza alcuna direzione precisa che probabilmente non riuscirà ad agganciare la crescita dell'economia mondiale ed avrà il solo effetto di aumentare il debito fino alla sua soglia più critica.