«La bocciatura deve essere uno strumento estremo, discusso e vissuto con il ragazzo/ragazza e i genitori, altrimenti porta alla dispersione». Lo ha detto, in un intervento dedicato a questo inizio di anno scolastico, il ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza. Ed è un'affermazione che si può senz'altro condividere, a patto di metterne a fuoco esattamente i termini e di non ridurla a un generico invito a promuovere.
Perché, bisogna dirlo, troppe volte nelle nostre scuole ancora l'alternativa che sembra imporsi è quella tra un buonismo che garantisce anche a chi non sa nulla di andare avanti egualmente nel corso degli studi e una selezione che non guarda in faccia le persone e non sa comprendere la dinamica della loro crescita.
Il primo fenomeno ha avuto il suo apice dal 1994, quando, con l'abolizione degli esami di riparazione voluta dal ministro D'Onofrio, durante il primo governo Berlusconi, si era aperta la via al sistema dei «debiti» scolastici. Invece di «rimandare» l'alunno, gli si attribuivano dei debiti nelle discipline in cui la sua preparazione, alla fine dell'anno, risultava insufficiente, promuovendolo comunque all'anno successivo. Il problema è che la nuova formula non prevedeva alcuna sanzione nel caso in cui il «debitore» rimanesse insolvente.
Per dieci anni, così, prima della svolta impressa nel 2007 dal ministro Fioroni e confermata successivamente dalla Gelmini, la scuola italiana era stata il regno degli asini. Si poteva concludere trionfalmente il corso di studi senza avere mai studiato alcune discipline, magari facendo uno sberleffo ai rispettivi docenti e ai compagni «scemi» che vi si erano impegnati.
È appena il caso di sottolineare il significato perverso di un simile meccanismo. Paradossalmente, si realizzava, ad opera di un governo di tutt'altra tendenza, il sogno sessantottino di «abolire la selezione», una formula che non distingue tra quella economico-sociale, sicuramente ingiusta, e quella relativa all'impegno e alle capacità, legittima e anzi doverosa. E non è vero che una scuola che opera questa seconda selezione è antidemocratica. Al contrario. Una graduatoria fondata sul merito e le capacità è l'unica via attraverso cui i ragazzi e le ragazze socialmente ed economicamente svantaggiati possono sperare di recuperare il gap che li separa dai loro compagni «figli di papà». Livellare a scuola, promuovendo tutti col «sei» politico, significa affidare esclusivamente alla fin troppo reale selezione post-diploma - fondata sulle diverse condizioni familiari - le differenziazioni successive.
Non c'è da stupirsi se quegli anni hanno contribuito (senza esserne certamente l'unica causa) a indebolire il prestigio e l'affidabilità culturale della nostra scuola. Il titolo e il voto conseguito con gli esami di Stato finali hanno ormai perduto ogni valore e perfino il piccolo riconoscimento che era stato loro dato dal ministro Profumo - il bonus valido per l'accesso universitario - è stato proprio in questi giorni abolito dal governo Letta.
Senza dire dell'ovvio effetto diseducativo di un andazzo in cui studiare diventava un optional, senza alcun serio riconoscimento da parte dell'istituzione.
Per fortuna, menzionando questi estremi parliamo del passato. Il secondo governo Prodi e il successivo governo Berlusconi, coi sunnominati ministri Fioroni e Gelmini, hanno ristabilito un sistema di verifiche in base a cui solo chi salda il debito può essere promosso, mentre chi non lo fa viene bocciato. Ma il rischio della promozione facile rimane, in un universo scolastico dove spesso si infiltrano la demotivazione degli insegnanti e la delusione per il mancato riconoscimento sociale.
È vero, però, che quello del buonismo non è il solo pericolo a cui la nostra scuola è esposta. C'è un modo perverso anche di operare la selezione. E anche in esso c'è, alla base, la mancata distinzione tra quella economico-sociale e quella che guarda al merito e alle capacità di un ragazzo. Come nella deformazione «buonista» si riduce la seconda alla prima, per rifiutarla in blocco, così in quella opposta di cui ora parliamo si riduce la prima alla seconda e si valutano come incapacità o mancanza di impegno quelli che sono soltanto effetti di uno svantaggio socio-economico. Oggi ci sono migliaia di alunni che non hanno i soldi per comprare i libri di testo. Il buono-libri, in molti comuni, arriva alla fine dell'anno o non arriva affatto. Senza dire che chi cresce in una famiglia dove non si parla a casa un italiano corretto e non c'è il computer o una buona biblioteca non si trova sullo stesso piano di chi va ogni anno a Londra per perfezionare il proprio inglese e gode di tutte le facilitazioni di un ambiente sociale colto. Per questo le prove Invalsi non fanno giustizia, mettendo tutte le classi e tutte le scuole italiane sullo stesso piano.
Per questo bisogna anche essere responsabili nel bocciare un ragazzo. Questo però non può significare che lo si promuove, anche se non sa nulla, perché è povero! Questa sarebbe una truffa innanzi tutto nei suoi confronti e costituirebbe solo un modo per mascherare, non per fargli superare, il suo svantaggio. Prima della scelta se promuovere o bocciare, c'è quella dei mezzi da mettere in atto per portare chi è in ritardo al livello degli altri. È questa la «terza via» tra la promozione facile e la bocciatura altrettanto facile. Solo che questa via, a differenza delle altre due, è difficile. Molto possono fare la sensibilità e la passione dell'insegnante. Ce ne sono tanti - a dispetto del discredito sociale in cui questa figura è caduta in questi anni - che si prodigano con ammirevole impegno in questa direzione. Ma questi docenti non possono e non devono essere lasciati soli da uno Stato che negli ultimi anni - con una piccola svolta positiva proprio in questi giorni - ha dato alla scuola sempre di meno. Agli insegnanti e al sistema scolastico nel suo insieme devono essere offerti più risorse e più riconoscimento. Solo così potrà trovare la sua effettiva attuazione l'invito del ministro Carrozza.