La strada imboccata per cercare di neutralizzare per via diplomatica l’arsenale chimico siriano è tutta in salita, ma se per caso portasse a destinazione toglierebbe le castagne dal fuoco a molti protagonisti della crisi. Anzitutto, a Barack Obama, che nonostante i suoi appassionati appelli alla responsabilità rischiava seriamente di vedere bocciata dal Congresso la sua proposta di un bombardamento punitivo contro la Siria, con la conseguenza di perdere ogni credibilità sia all’interno, sia all’estero. In secondo luogo, ad Assad, che scongiurerebbe un bombardamento che - se condotto con i criteri voluti dal Pentagono - avrebbe inflitto un colpo molto serio alla sua capacità di stroncare la ribellione. In terzo luogo, all’Onu, che dopo essere stata relegata ai margini della crisi dai contrasti tra Usa e Russia in Consiglio di Sicurezza ritroverebbe di colpo la sua centralità (oltre alla responsabilità, pesantissima, di vegliare sulla applicazione di un eventuale accordo).
Gli unici insoddisfatti dalla prospettiva di una soluzione diplomatica sembrano essere gli insorti, che contavano sulle bombe americane per indebolire le forze governative. Per adesso, tuttavia, ci sono soltanto, come si suol dire, se e ma. Non sappiamo se Washington e Mosca riusciranno a mettersi d’accordo sulle modalità dell’operazione, a cominciare dalla formulazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dovrebbe formalizzarla. Non sappiamo se la Siria, che ha riconosciuto per la prima volta ufficialmente il possesso di armi chimiche, è davvero disponibile a rivelare agli ispettori internazionali tutti i depositi e i laboratori del suo formidabile arsenale.
Non sappiamo, soprattutto, se un accordo per la consegna e la distruzione di migliaia di tonnellate di gas tossici sia fattibile in un Paese dilaniato dalla guerra civile. Secondo esperti israeliani, ci vorrebbero migliaia di ispettori dell’Onu, 75.000 uomini sul terreno per garantirne l’operatività e la sicurezza (chi sarà mai disposto a fornirli?) e almeno un paio di anni di tempo. Una missione difficile perfino in tempo di pace, praticamente impossibile in mezzo ai combattimenti.
Il primo passo verso la soluzione che ha indotto Obama a giocare su due scacchiere, cioè a chiedere contemporaneamente al Congresso il via libera per l’intervento militare ma di rinviare, per il momento, il voto, è stato affidato ai due ministri degli Esteri, Kerry e Lavrov,che si incontreranno oggi e domani a Ginevra per cercare una posizione comune.
A Washington è molto diffuso il timore che il piano lanciato lunedì da Mosca e subito approvato, sia pure con qualche ambiguità, dalla Siria (sembra che all'origine di tutto siano alcune battute scambiate sull'argomento nel colloquio informale tra Obama e Putin ai margini del G20), si riveli semplicemente un espediente dell'asse Cremlino-Damasco per guadagnare tempo, rinviando di varie settimane il temuto attacco missilistico anche se le trattative dovessero poi incontrare ostacoli insormontabili. Per questa ragione, la Francia ha chiesto - incontrando l’inevitabile niet di Mosca - che la risoluzione del Cds che dovrà regolare l'intera operazione contenga l'autorizzazione a un intervento armato in base al Capitolo VII della Carta in caso di fallimento.
Il problema di fondo è proprio la mancanza di fiducia tra le parti. Se, in teoria, Obama dovrebbe ringraziare Putin per avergli offerto una possibilità di districarsi da una situazione estremamente delicata, che lo avrebbe trasformato - per usare l’espressione yankee- in un’anatra zoppa, in pratica egli teme che Zar Wladimir stia semplicemente manovrando per diventare il dominus della situazione.
Ancora maggiore diffidenza regna nei confronti di Assad, della sua effettiva volontà di aderire alla Organizzazione per il divieto delle armi chimiche, della sua disponibilità a rivelare tutti i siti coinvolti nella produzione e nell'uso delle armi incriminate, della sua capacità di mentire. Ma due fattori fanno sì che, nonostante tante difficoltà, la carta di un accordo sarà giocata fino in fondo: le pressioni di una opinione pubblica ovunque contraria a un intervento militare americano e il timore di aiutare una ribellione sempre più frammentata, dominata dagli estremisti di Al Qaeda e capace, secondo molte recenti testimonianze (compresa quella di Domenico Quirico) di atrocità che non hanno nulla da invidiare a quelle del regime.