Nelle ventisette pagine del comunicato finale del G20 di San Pietroburgo, la parola Siria non compare neppure una volta: pur di non mettere in piazza i profondi contrasti sull’opportunità di un attacco missilistico contro il regime di Assad, pur di evitare che lo scontro Usa-Russia - forse mai così aspro dai tempi della guerra fredda, dopo che Putin ha annunciato che intende aiutare la Siria in caso di attacco - finisse in un documento ufficiale, pur di non menzionare il fermo intervento del Papa contro la guerra, i Grandi del mondo hanno preferito far finta che la discussione che ha infiammato la cena di giovedì sera al Peterhof non sia mai avvenuta.
La decisione – senza precedenti in vertici di questo tipo – può essere interpretata in due modi. Gli ottimisti sosterranno che, evitando di evidenziare nero su bianco la spaccatura del consesso, le Cancellerie si sono lasciate aperte le porte per una soluzione diplomatica, che eviti l’intervento militare franco-americano e nello stesso tempo punisca Assad per le sue efferatezze: si fa strada, per esempio, l’idea di dare al regime di Damasco un ultimatum di 45 giorni per la consegna di tutte le armi chimiche in suo possesso, pena una rappresaglia stavolta unanime. Una soluzione senz’altro gradita all’Onu, al Pontefice, alla maggioranza degli europei che, muovendosi come al solito in ordine sparso, si sono defilati dal conflitto lasciando praticamente solo sulla linea di combattimento il francese Hollande, e che potrebbe tornare molto comoda nell’eventualità, tutt’altro che impossibile, che il Congresso neghi a Obama la luce verde per bombardare. Proprio la scelta della Casa Bianca di demandare la decisione finale a deputati e senatori, oltre a essere un segno di incertezza, lascia il tempo per nuove iniziative prima che partano i missili.
I pessimisti, al contrario, ritengono che il «silenzio assordante» del G20 sia il preludio per l’azione militare americana, che secondo fonti di Washington, potrebbe assumere dimensioni anche maggiori di quanto previsto all’inizio, cioè non soltanto «punire» Assad, ma indebolire il suo apparato militare al punto di influire sulle sorti della guerra. Non c’è dubbio che, con questa iniziativa, Obama si stia giocando il futuro della sua presidenza. In patria, la stragrande maggioranza dei suoi concittadini si oppone a un nuovo coinvolgimento americano in una guerra mediorientale; in Europa, l’opinione pubblica è egualmente contraria; molti dei consiglieri della Casa Bianca rimangono scettici sull’utilità di un bombardamento e ne temono le ripercussioni sui Paesi vicini; a San Pietroburgo, su venti Paesi partecipanti, Obama ne ha trovati due soli (Francia e Turchia) pronti a partecipare all’impresa anche senza mandato dell’Onu, altri tre o quattro che approvano il suo operato (Australia, Arabia Saudita, Canada) ma senza metterci un solo aeroplano e un altro gruppo, per un totale di dodici (compresi Italia e Germania), che condanna l’uso dei gas da parte di Assad ma non va più in là. Israele, che non è nel G20, ma è senz’altro parte in causa, approva un intervento limitato, ma che non alteri il rapporto di forze sul campo perchè, per Gerusalemme, la soluzione più favorevole è che non vinca nessuno. Ma lo Stato ebraico teme anche che se l’America, all’ultimo momento, si tirasse indietro, manderebbe un pessimo segnale per l’Iran e le sue ambizioni nucleari.
Cambiano poco, in questi equilibri, le dichiarazioni di Catherine Ashton, che a nome dei ministri degli Esteri Ue ieri ha parlato della necessità «di una risposta forte».
È stato un brutto scherzo del destino che il G20 di quest’anno si sia svolto proprio in Russia, Paese coinvolto in prima linea in Siria, e con un presidente come Putin più incline allo scontro che al confronto. Il programma economico, evidenziato nel comunicato, era infatti interessante, concentrato sull’inizio di ripresa economica, sulla necessità che questa non avvenga senza un riassorbimento della disoccupazione e soprattutto su una lotta comune alla evasione e all’elusione fiscale che, se condotta seriamente, potrebbe portare risultati importanti. Era un tentativo di dimostrare che queste riunioni annuali, che si sono sovrapposte a un ormai datato G8, non servono solo da terreno di parata per i nuovi potenti, ma possono effettivamente influire sull’andamento dell’economia mondiale. Fra un anno, potremo verificare se San Pietroburgo è stata solo una fiera delle buone intenzioni, o diventerà un concreto punto di riferimento per i governi coinvolti. FONDI@GDS.IT