Sui fermenti di guerra, che da giorni agitano il clima internazionale, si è levato, alto e forte, come quello di un profeta, il grido di Papa Francesco che, nell’Angelus di ieri, ha voluto farsi «interprete del grido che sale da ogni parte della terra. Il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace».
Finora lo avevamo visto impegnato a testimoniare la concretezza del Vangelo nella dimensione personale dei rapporti individuali.
È diventata ormai notissima la sua capacità di mettersi in relazione con tutti, ma soprattutto con i piccoli, con i sofferenti, con coloro che in qualunque modo siano stati calpestati dalla vita o dagli altri. L’abbraccio appassionato di Francesco ai bambini e ai portatori di handicap, durante le udienze generali, ha colpito per la sua intensità e autenticità, che ne ha fatto una manifestazione tangibile dell’amore di Dio. Le sue telefonate alle vittime di violenze o anche semplicemente alle persone emarginate e avvilite, che si erano rivolte a lui per avere conforto, hanno evidenziato la sua estrema attenzione – la stessa di Cristo – al volto e al pianto di ogni singolo essere umano. Sotto questo profilo, forse mai un Papa aveva suggerito, col suo comportamento quotidiano, una così forte analogia con il Maestro di cui, per tradizione, è il vicario sulla terra.
Papa Francesco ha anche lanciato importanti messaggi a livello sociale. Il richiamo ai poveri del mondo è stato continuo, così come continuo è stato l’appello a ristabilire rapporti di giustizia che rendano ad ogni uomo la sua dignità, minacciata dalla mancanza di risorse materiali e di lavoro. Questa, però, è la sua prima forte presa di posizione di carattere politico. Una presa di posizione che sfida le logiche delle diplomazie, gli interessi dei governi, gli egoismi nazionali, e si esprime nel grido: «Mai più la guerra!».
Le stesse parole che poco più di dieci anni fa, il 16 marzo 2003, Giovanni Paolo II, alla vigilia dell’attacco americano all’Iraq, aveva pronunziato – anche allora durante l’Angelus - per cercare di scongiurare un conflitto della cui rovinosità, per tutti, nessuno oggi più osa dubitare. Una coincidenza, tutt’altro che fortuita, che mette in continuità Francesco con il grande Pontefice «politico» suo predecessore e gliene fa raccogliere l’eredità di protagonista delle vicende mondiali.
Siamo ben lontani dall’immagine di «buonismo» che alcuni, ormai da qualche tempo, tendevano ad appioppare a questo Papa. Ma anche chi cercava di ridimensionare la sua figura, sottolineando gli aspetti apparentemente utopistici della sua coerenza evangelica e lasciando trapelare forti riserve sulla sua capacità di incidere effettivamente sulle situazioni concrete della Chiesa e del mondo, ha oggi una risposta che non ammette repliche.
Ben lungi dall’appellarsi a vaghi sentimentalismi, Papa Francesco ha chiamato a giudicare gli eventi umani non solo Dio, ma la storia: «C'è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni, a cui non si può sfuggire. Non è mai l'uso della violenza che porta la pace: guerra chiama guerra, violenza chiama violenza». E sapeva bene – proprio alla luce delle tragiche vicende legate al ricordo dell’Iraq - di non poter essere contraddetto da nessuno che abbia occhi per vedere.
Questo – attenzione! - non significa tacere e tanto meno subire passivamente la gravità di ciò che finora è successo. Riferendosi esplicitamente alla crisi siriana, Francesco ha condannato con estrema fermezza il ricorso alle armi chimiche. Ma, soprattutto, egli non ha affatto chiesto al mondo e ai cristiani di rassegnarsi agli orrori in corso, limitandosi a evitare di aggiungerne altri con un intervento armato. Piuttosto, ha additato un altro metodo di lotta per combattere la prepotenza. Un metodo che è il solo modo di mettersi veramente al di sopra di essa, invece di risponderle sul suo stesso piano e in fondo con lo stesso stile. Questa via non violenta, ma proprio perciò alternativa, è quella del Vangelo, poi ripresa da Gandhi, del sacrificio personale per convertire il violento. Si situa in questa logica la decisione di Francesco di indire per il 7 settembre prossimo, vigilia della ricorrenza della Natività di Maria Regina, una giornata di digiuno e preghiera per la pace in Siria, in Medio Oriente e nel mondo intero. Un invito rivolto alla Chiesa di Roma di cui è vescovo e a tutte le Chiese della cattolicità, ma aperto anche alla libera partecipazione di tutte le religioni, con l’evidente intento di sottolineare la forza della preghiera e della penitenza anche nelle questioni che una mentalità troppo umana ritiene risolvibili solo dai cannoni.
La peculiarità di questo stile non sta, però, solo nel rompere il tragico circolo della violenza, con le sue faide infinite, ma anche nel richiamare tutti alle poprie responsabilità. È facile indignarsi per ciò che oggi accade nel mondo: ma quanti si chiedono quale sia, in tutto questo, il ruolo – almeno a livello di indifferenza e di omissioni - di ciascuno? Il Papa non ha proposto di fare uno di questi cortei con cui si scandiscono slogan contro gli altri, ma di convenire insieme in spirito di penitenza, cioè di umile riconoscimento delle proprie colpe, a livello sia individuale che collettivo. È una profonda lezione anche di umanità. Sta a tutti noi non lasciarla cadere nel vuoto. Ma, quale che ne sia l’esito, con essa Francesco ha ricordato al mondo che il Vangelo non è un fatto solo privato.
Caricamento commenti
Commenta la notizia