Che i morti siano 149, come sostengono le autorità, alcune centinaia come riferiscono i media internazionali, o addirittura 2.200 come accusa un portavoce dei Fratelli musulmani, la sostanza non cambia molto: l'Egitto ha fatto un altro passo, forse l'ultimo, verso la guerra civile, anche se gli islamici, per quanto radicati nel Paese, non hanno forse l'interesse a un immediato scontro frontale. Dopo avere indugiato per un paio di giorni oltre l'ultimatum e avere cercato invano di ottenere uno sgombero pacifico delle piazze occupate dai sostenitori del deposto presidente Morsi, i militari egiziani sono passati all'azione con la consueta brutalità, usando non solo lacrimogeni, ma anche fucili e mitra, e hanno proceduto al ripulisti del Cairo (con malcelata soddisfazione di una parte cospicua dei suoi abitanti). Per maggiore sicurezza, hanno sospeso tutte le comunicazioni ferroviarie tra la capitale e il resto del Paese, per impedire che i Fratelli facessero arrivare rinforzi da fuori. Il risultato, tuttavia, non sembra essere quello sperato: invece di cedere alla violenza, i difensori di Morsi hanno invitato i loro seguaci a creare nuovi punti di resistenza intorno alle moschee e i disordini, tuttora in corso nella capitale, si sono rapidamente estesi ad altre città e già ci sono notizie dell'incendio di almeno due chiese copte. L'auspicato dialogo tra i Fratelli e le forze che un mese fa hanno rovesciato il loro campione è diventato praticamente impossibile e a metà pomeriggio è arrivata la risposta dei militari: ritorno in vigore immediato, per la durata di un mese, dello "stato di emergenza", completo di coprifuoco, con cui Moubarak aveva governato per trent'anni e che autorizza polizia e forze armate a prendere "qualsiasi iniziativa" per mantenere l'ordine pubblico, compresa la detenzione di cittadini a tempo indeterminato.
Il blitz ha comunque creato ai generali alcuni sviluppi preoccupanti sul fronte interno. Ahmed al Tayyeb, rettore dell'università di Al Azaar e massima autorità sunnita nel mondo, che pure aveva approvato la destituzione di Morsi, si è affrettato a prendere le distanze dalla loro ultima iniziativa. Una condanna è arrivata anche da un portavoce di Tamarrod, il movimento che aveva dato vita alla sollevazione della piazza contro Morsi che indusse i militari a intervenire; e, in serata, è arrivata la notizia delle dimissioni del vicepresidente El Baradei, il Nobel che gli davano una certa copertura in Occidente.
Com'era da attendersi, la condanna della comunità internazionale è stata unanime, anche se con qualche differenza di toni. Tutti, naturalmelnte, invitano ancora alla ricerca di una soluzione politica come unica via d'uscita. Ma è evidente anche l'imbarazzo. Chi ha sostenuto, più o meno apertamente, la deposizione di Morsi da parte dell'esercito non può fare a meno di riconoscere che se, dopo un chiaro ultimatum, le autorità avessero consentito ai seguaci del presidente islamista Morsi di continuare ad occupare le piazze avrebbero perso ogni autorità. Decisivo sarà comunque l'atteggiamento americano: se dopo i fatti di ieri riconoscessero che in Egitto c'è stato un golpe, dovrebbero per legge sospendere il sussidio di 1,5 miliardi di dollari che ogni anno forniscono ai militari, perdendo così nei loro confronti ogni capacità contrattuale. Gli unici a mantenere una certa influenza sul Cairo sarebbero gli Stati del Golfo, che con i loro aiuti ne impediscono la bancarotta. Con conseguenze geopolitiche, anche nel rapporto con Israele, oggi difficili da valutare.