Arriva un momento in cui la politica deve passare dalle parole ai fatti. L'abolizione delle province è diventata uno dei cardini della credibilità del governo (che ieri ha fatto la sua parte) e del parlamento che dovrà rispettare gli impegni presi dai partiti nella convinzione che fossero soltanto parole. La fermezza sull'accorpamento dei tribunali e sul rispetto della mediazione obbligatoria saranno un ulteriore banco di prova: la potentissima lobby degli avvocati è soltanto una delle tante che amano le riforme solo se fatte in casa d'altri (come i notai, i farmacisti, i giornalisti e chi più ne ha più ne metta). Questa maggioranza è nella condizione ideale per dividere responsabilità e impopolarità: ciascuno paghi il suo prezzo e vada a letto sicuro di aver fatto una buona azione per il futuro dei propri figli. La condizione è ideale perché lo spettro di elezioni anticipate è ormai appunto solo uno spettro senza corpo. Tutti dicono che se il governo vincerà il gran premio della montagna (copyright Enrico Letta) tra l'estate (Imu e Iva) e l'autunno (processi di Berlusconi) poi il percorso sarà molto più agevole e finanziariamente più sereno. La 'verifica' di giovedì (termine carico di sinistri ricordi della Prima Repubblica) si è risolta in una scampagnata. "I capigruppo erano così contenti di stare lì e di parlare di cabine di regia - ci ha detto un ministro - che il confronto è diventato un bagno nel latte". Letta e Alfano dimostrano una intesa impressionante e fanno fatica a non chiedersi come mai stanno in due partiti così diversi e conflittuali. Sono convinti di superare gli scogli fiscali e cautamente fiduciosi che all'ultimo momento utile la 'ragion di Stato' prevalga nelle vicende giudiziarie che riguardano Berlusconi. Duro con chi non rispetta un ordine fondamentale dello Stato come la magistratura, Giorgio Napolitano è severo in pubblico e severissimo in privato con i pubblici ministeri e i giudici che assumono nelle inchieste, nelle decisioni e nelle motivazioni delle sentenze atteggiamenti sempre più spesso sopra le righe della normale ed equilibrata giurisdizione. Per dirla tutta, il capo dello Stato - a sentire chi gli sta vicino - non troverebbe accettabile che chi ha governato per quasi dieci anni ed è stato per venti al centro della politica italiana finisca in prigione non avendo commesso un omicidio, rapinato banche o stuprato minori innocenti. Senza voler entrare nel merito dei processi e al netto perfino delle leggi ad personam che gli sono valse un paio di prescrizioni, qualunque altro cittadino avrebbe avuto un trattamento giudiziario diverso da Berlusconi. Questo Napolitano lo sa e senza interferire nelle valutazioni di un ordine costituzionalmente autonomo, ritiene probabilmente ragionevole che una qualche soluzione vada trovata. Gli avvocati ripetono al Cavaliere con cruda e impietosa costanza che tecnicamente il rischio di finire in prigione alla fine del percorso giudiziario in atto è molto elevato. La fuga e la latitanza sono impensabili. Berlusconi non è Craxi e non ha commesso i reati ascritti a Craxi. E' un leader che non è tornato a palazzo Chigi per la quarta volta per 125.000 voti dopo non essere stato confermato nel 2006 per 27.000. Per il poco che lo conosciamo, un'ora dopo essere entrato a San Vittore conquisterebbe i compagni di cella, un giorno dopo il braccio e un mese dopo sarebbe il padrone assoluto del carcere, oltre che il presidente della squadra di calcio dei detenuti e l'allenatore di quella delle guardie. Possiamo testimoniarlo di persona per Sergio Cusani, che non aveva la popolarità e il carisma di Berlusconi. Fuori, il centrodestra vincerebbe le elezioni a tavolino. Per molti italiani che hanno fatto dell'odio la loro religione, Berlusconi meriterebbe l'ergastolo. Per fortuna il capo dello Stato non la pensa così.