di ADELFIO ELIO CARDINALE
Un aspetto inedito. L'anno scorso - in occasione del centenario della morte - la figura di Giovanni Pascoli è stata celebrata con numerosi e qualificanti convegni e manifestazioni, che hanno tratteggiato la figura del poeta dal punto di vista letterario, umanitario, storico, patriottico, civile. Un aspetto affatto trascurato è stato il rapporto tra il poeta, i medici e lo spirito della medicina. Pascoli fu definito l'ultimo figlio di Virgilio, rivoluzionario nella tradizione. Acceso patriota, fu uno dei due poeti che coronarono di gloria l'Italia della seconda metà dell'Ottocento: Giosuè Carducci, la splendida forza; Giovanni Pascoli, la pensosa dolcezza. Il poeta, infatti, è ricordato come cultore della bontà e fraternità, con i suoi versi imbevuti di umanesimo e idealismo.
Pascoli, come è noto, succedette nella cattedra universitaria dell’«Alma Mater» di Bologna a Giosuè Carducci, dittatore riconosciuto delle patrie lettere. Pascoli rimase sempre quasi schiacciato dall'ombra del suo predecessore. Uomini opposti in tutto - carattere, poesia, vitalità e vigoria fisica - presentano solo un accadimento parallelo. Entrambi, nell'agonia finale della vita, ebbero a consulto il grande clinico Augusto Murri. Questi visitando il leone maremmano, definito il «poeta della Patria», scosse la testa e disse: «Ha lavorato tanto». Era la sentenza inappellabile.
La complessità dell'uomo Pascoli fu marchiata a vita dalla fine violenta del padre, ucciso da una fucilata mentre tornava a casa da Cesena a S. Mauro, su un calesse tirato da una cavalla storna - cioè un mantello grigio macchiato di bianco - resa poi immortale dall'omonima poesia. In sintesi la vicenda intellettuale e poetica di Pascoli rappresenta un classico esempio di un unico concetto espresso con l'endiadi: letteratura e vita civile. Egli nutrì sempre grande ammirazione, quasi venerazione, per la medicina e per i dottori - sia grandi luminari come Augusto Murri, principe dei clinici e Alessandro Codivilla, eccelso ortopedico - sia per i medici condotti. Questi furono definiti un esercito che tutti i giorni e in tutti i luoghi combatte e vince, milita e muore, tentando di aiutare i malati con fraternità umana. La medicina fu cantata come missione e volontà di credere nel bene e di gettare ponti di ideali speranze sul futuro. È testimonianza il discorso ai medici condotti nella Clinica di S.Orsola a Bologna. L'allocuzione contiene una parte di verità perpetua - quella in cui ha rilievo la sua nobile comprensione della funzione, che si può dire ancora sotto certi aspetti spesso missione del medico - e quella, in apparenza occasionale, che si riferisce alla inadeguata corrispondenza morale e specialmente economica, da parte dei Comuni e anche del pubblico, all'opera dei medici condotti.
Pascoli era stato in gioventù socialista, ma l'animo e l'opera sua traboccano di elementi cristiani e umani. Per questo venerò, con particolare attaccamento, l'eccelsa figura di Augusto Murri - professore di Clinica medica nell'ateneo di Bologna - che aveva conquistato grande rinomanza, in Italia e all'estero, per la vasta cultura, per il metodo didattico rigorosissimo, che rialzò il prestigio della medicina come scienza, e per la dedizione all'uomo infermo, che sintetizzava nella frase: «La malattia bisogna studiarla sul malato». Murri è il sommo medico che coniuga scienza, salute e problemi sociali, innalzando a potenza l'eticità della professione. Egli affermava: «Bisogna sviluppare fortemente lo spirito scientifico. Ma un sapere, il quale non dovesse modificare le azioni umane, diventerebbe una divertente speculazione. Non la scienza per la scienza, ma la scienza tutta per l'umanità».
Nel 1907, nel suo «Diario autunnale» Pascoli si sofferma commosso sull'Istituto Ortopedico Rizzoli di S. Michele in Bosco a Bologna. Un vecchio convento monumentale appartenuto agli Olivetani che - dopo alcuni passaggi - fu acquistato da Francesco Rizzoli, padre dell'apparato motorio, che lo trasformò in istituto per rachitici e malati di ossa. Il poeta esprime sentimenti di entusiastica stima per i fondatori e per il successore, il chirurgo Alessandro Codivilla «alfiere dell'ortopedia». Per merito loro l'Istituto acquisì giusta fama internazionale, che mantiene tuttora come centro di eccellenza. In tutta la sua tragica vita (l'uccisione del padre, la morte l'anno dopo della figlia primogenita e un mese dopo della moglie, per non parlare in seguito, in pochi anni, di due fratelli) Pascoli fu amico di tanti medici, umili o importanti.
In particolare il dottor Antonio Dal Prato - medico condotto a Castiglione di Ravenna, rimasto caro e fedele per tutta la vita. Quando questi morì, il poeta lo commemorò nel «Bollettino dell'Associazione fra i Sanitari della Romagna», con parole che confermavano la profonda simpatia per i medici condotti, dei cui diritti era fervido e ardente sostenitore. «Avete una grande missione da compiere. Ricordatevelo. Voi siete l'avvenire», furono le frasi di Pascoli, che ripetè anche quando cadde gravemente malato. Espressioni di stima, gratitudine e augurio che ripetè in varie riunioni e congressi di medici. «La serietà suprema del vostro compito nella vita vi appariva col suo carattere sacro … Venite da tutte le misure umane essendo destinati assai spesso a soffocare in voi la peggiore: l'umana ingratitudine … Mal retribuiti, assai spesso, mal conosciuti, cinti di divieti, irretiti di sofismi, soffocati di diffidenze…». Parole assai valide e attuali anche nel XXI secolo.
Per queste sue benemerenze Giovanni Pascoli fu nominato socio onorario della Società medico-chirurgica di Bologna, su proposta di Augusto Murri. Il poeta morì nel 1812 per cancro o cirrosi epatica. Fu visitato da tanti medici, con vani tentativi di terapia, e anche da Murri il maggiore e più addolorato per l'impotenza della scienza. Incapacità fatale, in cui tutto è perduto, quando il solo farmaco è la pietà e l'empatia verso il malato. I medici di oggi, rimeditando l'opera e la vita di Pascoli, possono intendere tutto il valore che il poeta dava a questa professione, a questa "arte lunga", dove tecnica e umanità devono coesistere. Egli pensava a quell'aristocrazia che si può chiamare degli uomini-guida, a cui appartengono poeti come lui e medici come molti in tutti i gradi della professione, più benemeriti quando nella durezza del compito non si perde ma si esalta la volontà di bene. Un approccio che arricchisce l'atto medico, con un recupero autentico della natura umanistica della medicina, fondata sul rispetto, ascolto, speranza e solidarietà. Parole senza tempo.
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