Esiste da almeno 600 mila anni, viene puntualmente studiato da quasi tre mila anni, ma in Sicilia forse non ce ne eravamo neanche accorti. Dal 21 giugno scorso il monte Etna è entrato nella lista Unesco che comprende i beni patrimonio dell'umanità. La motivazione è che si tratta di uno dei vulcani attivi «più emblematici del mondo» e con «una delle storie documentate di vulcanismo più lunghe al mondo» che «continua ad influenzare la vulcanologia ed altre discipline della terra»; tutti elementi che ne fanno «una destinazione privilegiata per la ricerca e l'istruzione». Nella lista mondiale dell'Unesco si contano soltanto 962 beni, di cui 745 culturali ed appena 188 naturali. L'Italia guida questa speciale classifica con 48 (ora 49) siti, precedendo grandi Paesi come la Cina che ne conta 43 o gli Stati Uniti e la Russia che si fermano ad una ventina ciascuno.
La Sicilia ha cinque siti nella lista Unesco, ora diventati sei; quattro culturali e due naturali: l'area archeologica di Agrigento, la Villa romana del Casale a Piazza Armerina, le città tardo barocche del Val di Noto, Siracusa e le necropoli rupestri di Pantalica; tra i beni «naturali» ci sono le isole Eolie e da pochissimi giorni, come si diceva, il Monte Etna. Il riconoscimento tributato al più grande vulcano d'Europa è frutto del lavoro prezioso del ministero dei Beni culturali, della Regione Siciliana e dei Comuni siciliani interessati, che hanno saputo contrapporre alla durissima concorrenza internazionale un dossier completo ed apprezzato, che ha saputo strappare l'unanimità dei giudizi favorevoli. Ma lunga resta ancora la strada da fare. Essere presenti nella lista Unesco rappresenta di per se una meta già molto ambita; la capacità di richiamo dei flussi turistici è considerata infatti molto forte ed in alcuni casi determinante. Ma il sigillo Unesco, come è ovvio, da solo non basta.
In un territorio come quello siciliano, più che altrove, serve un'azione coordinata tra le istituzioni, i soggetti gestori e le imprese private, capace di offrire condizioni di attrattività e livelli di servizio adeguati, che vanno dalla ricettività alberghiera al sistema stradale, dalla promozione dell'immagine alla completezza della documentazione, dal personale di accoglienza adeguatamente formato, fino all'uso del canale internet e degli strumenti multimediali per l'informazione e la «vendita», senza dimenticare la pulizia dei siti. Insomma, senza volere fare il consueto piagnisteo, l'Etna è stato giudicato "l'emblema" tra i circa mille e cinquecento vulcani attivi esistenti al mondo, un luogo privilegiato per le escursioni e lo studio, eppure l'intera provincia di Catania riesce ad attrarre fino ad ora appena il 10% dei (già pochissimi) turisti stranieri che visitano ogni anno la Sicilia. E non è l'unica stranezza. Malgrado il battage mediatico che ha accompagnato l'arrivo ad Aidone dal Paul Getty Museum di Malibu della Venere di Morgantina, il numero dei visitatori resta ancora esiguo e per di più, dopo la prima ondata, già calante.
Del resto chi si è avventurato lungo il tormentato percorso che conduce ad Aidone, può trarre logiche conclusioni. E che dire della necropoli di Pantalica, bene Unesco, che raccoglie oltre cinque mila tombe databili fra il 13° e l'8° secolo prima di Cristo? Chissà quanti siciliani hanno avuto l'occasione di una escursione! Da molti anni la Sicilia ed i suoi amministratori si arrovellano (si fa per dire) attorno ad un quesito inestricabile: come dare valore economico ai beni culturali, come farne insomma un'occasione vera di lavoro e di produzione di ricchezza. Tema rimasto tristemente senza risposte, malgrado esperienze di ben altro segno in Italia ed all'estero. Basti pensare che da circa otto anni giace inattuata la legge regionale che prevede la nascita di un servizio centralizzato per la prenotazione e la vendita on line degli ingressi in tutti i siti culturali siciliani. Un po' di storia può essere utile. L'espressione «bene culturale» viene usata per la prima volta nel 1954, guarda caso proprio dall'Unesco.
In Italia per arrivare alla prima definizione per legge bisogna aspettare il Testo Unico del 1999 ed il Codice dei Beni culturali e paesaggistici del 2004. L'innovazione più radicale è però quella della legge Ronchey del 1993 che per la prima volta apre ai privati la gestione e la valorizzazione dei beni culturali. La Sicilia gode in materia di autonomia primaria, ma solo nel 1975 arrivano i decreti di attuazione. Bisogna aspettare però il 2008 per una organizzazione completa del sistema di gestione dei beni culturali siciliani, quindici anni dopo la legge Ronchey; ma, ciò che è più grave, questo ritardo ha portato ad una struttura centralizzata che non ha dato i risultati che sarebbe stato lecito attendersi da un patrimonio così vasto e prezioso come quello siciliano. Malgrado un quotidiano abbia già pubblicato i dati di affluenza nei siti museali siciliani nell'anno 2012, noi comuni mortali dobbiamo accontentarci del dato ufficiale presente nel sito dei beni culturali e relativo al 2011.
Apprendiamo così che l'intera rete dei musei nella competenza della Regione ha generato soltanto 3,8 milioni di visitatori, di cui appena 2 milioni paganti. Molto scalpore ha suscitato la notizia riportata da numerosi media e secondo cui la Regione avrebbe incassato nel 2010 circa 12 milioni di euro dalla vendita dei biglietti e speso circa 67 milioni di euro per il personale addetto. Insomma, con questi numeri, la domanda come assicurarsi un ritorno economico dallo straordinario patrimonio culturale e paesaggistico della Sicilia, sembra destinata a restare senza risposte ancora per molto tempo. E speriamo che l'Etna non se la prenda a male.
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