La «convocazione» del presidente della Regione e di alcuni assessori presso la sede della Confindustria regionale aveva suscitato non poca sorpresa, sia per il carattere inusuale dell’incontro che per la sonora lavata di capo.
Incontro conclusosi con un duro quanto esplicito J’accuse: «Questa finanziaria danneggia le imprese». Accadeva appena tre settimane fa. Non mancarono in quell’occasione le analisi e le controdeduzioni, tutte tese ad interpretare la fine (che qualcuno considerava improvvisa) di un idillio (che qualcun altro immaginava duraturo). Ma, archiviate le interpretazioni politiche, resta il quadro drammatico di un sistema produttivo siciliano ucciso in culla. Quello che dovrebbe preoccupare, infatti, non è tanto il rapporto industriali-governo, che peraltro potrebbe considerarsi semplicemente istituzionale; ciò che pesa è che il sistema produttivo siciliano occupa uno spazio a dir poco residuale nelle attenzioni di una classe politica convinta, magari a ragione, che in termini elettorali renda assai di più qualche emendamento in materia di formazione che non piuttosto per pagare i debiti verso le imprese. E non sorprende che pure qualche buona notizia (azzeramento del deficit sanitario) finisca con il lasciare inalterate le maggiorazioni Irpef ed Irap, dovendosi colmare altri buchi! Neanche il ricco Veneto o l’opulenta Emilia Romagna impongono ai propri cittadini un prelievo fiscale aggiuntivo tanto pesante come nella nostra Isola. Nell’Europa a 27, posto uguale a 100 il dato che misura la diffusione delle industrie, la Sicilia si colloca - secondo Svimez – ad un valore pari ad appena 49, mentre alcune regioni della Polonia o della Bulgaria già oggi marciano attorno ad un valore medio che supera 150; come dire che le ultime arrivate nel teatro europeo, attraverso un accorto utilizzo delle risorse comunitarie, hanno saputo conseguire in due decenni un tasso di industrializzazione pari al triplo di quello che la Sicilia ha raggiunto in oltre 60 anni di autonomia.
Sarebbe bello potere riavvolgere il «film» degli ultimi anni e cancellare l’improvvida decisione di rinunciare ad ogni forma di impresa in Sicilia, nella fallace convinzione che, gonfiando a dismisura gli organici pubblici, fosse possibile dare una prospettiva ai giovani siciliani ed ai tanti che cercano un lavoro. Sarebbe bello, ma non è possibile. E così dopo avere dato la stura al precariato, dopo avere concentrato in Sicilia e Calabria il 60% dei forestali di tutta Italia, ci troviamo a galleggiare nella palude della disoccupazione dilagante. In fondo che cosa rappresenta la recente legge finanziaria (che tanto impegno ha procurato al Commissario dello Stato) se non l’ennesima riproposizione di un modello redistributivo della ricchezza e delle risorse disponibili, esclusivamente orientato al precariato ed alla spesa pubblica? Nella debacle del nostro sistema produttivo (fatto di piccole manifatturiere e di piccolissime imprese edili) si registra persino un paradosso. Nel Mezzogiorno italiano sono state concesse 11 ore di cassa integrazione per abitante ed in Sicilia appena cinque. Siamo talmente messi male da non potere ricorrere neppure agli ammortizzatori sociali. Certo qualche buona speranza viene ora dalla «felice» idea di fare accedere alla cassa integrazione anche il vasto mondo delle imprese pubbliche. In questo senso possiamo aspettarci magari un boom di cassa integrazione. Qualcuno ha pensato bene di creare un acronimo, neet, per indicare i giovani che non studiano e non hanno un lavoro. In Italia si contano circa tre milioni di neet; ma un milione si trova equamente distribuito soltanto tra Sicilia e Campania.
E dire che la terapia non sarebbe neanche difficile: infrastrutture, aiuti alle imprese e lavoro vero. In tanti ormai pensano che la partita sia persa; ma non mancano gli ottimisti che sperano sempre in meglio. Peccato che persino i test pubblici sul livello di apprendimento degli studenti vedano la Sicilia occupare l’ultimo posto. Mentre, soltanto nell’ultimo anno, secondo Svimez, i reati di associazione mafiosa in Sicilia sono lievitati del 33%, le estorsioni del 5% ed il riciclaggio del 6%. Questi numeri non sono figli del caso, sono figli del vuoto.
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