Si può esser martiri per la giustizia, al di fuori di un contesto esplicitamente religioso e confessionale? Giovanni Paolo II, nella sua visita in Sicilia, nel 1993, ha dato già una risposta a questo interrogativo, usando l'espressione «martiri per la giustizia» in riferimento a tutti coloro che, credenti o no, hanno dato la propria vita nella lotta contro la mafia. Perché «martire» significa, letteralmente, «testimone». E merita questo titolo colui che, pubblicamente, sfida la morte in nome di qualcosa che ai suoi occhi vale ancor più di essa. È stato il caso di padre Puglisi, di cui la Chiesa celebra la beatificazione il giorno 25 di questo stesso mese. Ma è stato anche, prima di lui, il caso di uomini come Giovanni Falcone, di cui oggi a Palermo ricordiamo il sacrificio.
Falcone può bene essere chiamato «martire» perché era un magistrato che concepiva la sua attività non come un lavoro da svolgere esclusivamente in vista della propria carriera o di una gratificazione soggettiva, ma come un servizio a cui si sentiva chiamato in vista del bene comune.
Oggi tra i giovani è diffusa l'idea che il motivo fondamentale per cui intraprendere una professione possa essere esclusivamente l'autorealizzazione. Ma è veramente questo il senso di un lavoro, quale che esso sia? Prendiamo, per esempio, quello del medico, o del magistrato, o dell'insegnante. Chiediamoci: la medicina è nata perché i medici si realizzino? Oppure perché chi soffre sia aiutato? Si va dal medico perché si realizzi, o per essere curati? E la magistratura esiste in vista dei successi mediatici del magistrato, o per garantire la giustizia alla società? L'insegnamento ha come fine l'autocompiacimento del docente, o l'educazione dei ragazzi, soprattutto di quelli con cui si fa più fatica? Domande analoghe si potrebbero fare per tutti i lavori, dai più umili ai più prestigiosi socialmente.
Non mettiamo in dubbio, qui, che l'autorealizzazione sia un valore. Ma essa dev'essere la conseguenza, non il fine del proprio impegno. Ci si realizza mettendosi in gioco senza riserve, dimenticandosi, in qualche modo, per coloro a cui si è chiamati a rendere un servizio.
Proprio il caso di Giovanni Falcone fa emergere nel modo più evidente che cosa ciò significhi. Se si intende la professione come servizio, allora i propri interessi passano in secondo piano: passa in secondo piano la normalità della propria vita - che Falcone sacrificò - passa in secondo piano la propria sicurezza - che Falcone mise a repentaglio -, passa in secondo piano perfino la propria vita - che Falcone ha sacrificato.
E noi oggi siamo qui a ricordare quest'uomo, ucciso dalla mafia, non per una cerimonia ufficiale, e neppure per una semplice memoria di un evento passato, ma per interrogarci sul nostro presente e sul nostro futuro. Per domandarci se siamo ancora capaci di seguirlo sulla via che egli ha percorso. Se ci siamo ormai rintanati nella nostra narcisistica ricerca di autorealizzazione, o se da lui possiamo imparare a concepire il nostro lavoro, in qualunque campo esso si svolga, come un dono di noi stessi, nella certezza che solo così ci si può realizzare davvero.