In fondo sono sempre compagni che sbagliano. Da quarant’anni l’ala più radicale della sinistra parlamentare non riesce a prendere le distanze dall’eversione. Era accaduto con le Brigate Rosse. Adesso schiaccia l’occhio alla guerriglia dei No Tav. Bombe molotov, cancelli chiusi per non far uscire gli operai. Addirittura un rudimentale mortaio. Ormai è una deriva piegata alla sovversione, avverte la Digos di Torino con toni assai preoccupati. Dinanzi ad un rischio così alto per tutta la comunità ci si aspetterebbe una condanna senza retorica. Senza se e senza ma. Qui e ora. Soprattutto da parte di forze politiche rappresentate in Parlamento. Invece siamo in presenza del solito ritualismo carico di ipocrisia. Parole di circostanza che, nascondono una sostanziale condivisione. Perché, secondo il comunicato emesso da Sel, non si può non riconoscere che «che in questi anni una parte consistente della popolazione non solo della Valle ha manifestato una contrarietà che ha raggiunto un carattere di massa». Il linguaggio è lo stesso degli anni ’70. Viene invocato il coinvolgimento «di diversi strati sociali, le istituzioni e gli schieramenti politici, forti di un capillare lavoro di sensibilizzazione, contro-informazione e documentazione tecnico-scientifica». Manca solo l’appello contro il Sim (Stato imperialista delle multinazionali) e poi il menù è identico. Di sangue e di muffa. La solita doppia morale: implacabile verso gli avversari che diventano nemici. Assai più tolleranti quando gli slogan dell’eversione risentono di matrici comuni: «Occorre interrogarci su quanto le contestazioni possano essere posizioni antisistema o piuttosto sintomi di cambiamenti sovrastrutturali, sintomatici di quelli strutturali». Ma guarda un po’: struttura e sovrastruttura. Come nei volantini ciclostilati che inneggiavano a Marx ed Engels. Una certa sinistra italiana non cambia mai. Nella migliore delle ipotesi è composta da una moltitudine di anime belle. Nella realtà è sospetta di tacita complicità con l’eversione.