Si moltiplicano, in questi giorni, le prese di posizione polemiche nei confronti delle «prove Invalsi» da parte di genitori e maestri delle scuole elementari (quelle per cui dette prove sono attualmente in corso di svolgimento). La protesta si è manifestata da parte dei primi non mandando a scuola i propri figli, da parte dei secondi scioperando. Su quotidiani e web, inoltre, è fiorita tutta una serie di dichiarazioni degli interessati, che spiegavano la loro scelta, chiedendo all'opinione pubblica di sostenerla.
Vediamo meglio i termini della questione. INVALSI è acronimo di Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione. Da alcuni anni esso, su mandato del Ministero della Pubblica Istruzione, procede a una valutazione del lavoro svolto nelle scuole per alcune discipline - italiano, matematica e scienze - , somministrando dei test a risposta multipla (quelli, per intenderci, in cui si tratta di mettere una crocetta sulla risposta giusta), su base campionaria, ad alcune classi: seconda e quinta per le elementari, prima e terza per la scuola media, seconda per la scuola superiore.
L'esigenza di una valutazione, per la verità, è nata dalla constatazione che, secondo i risultati dell'indagine Pisa (l'acronimo sta per Programme for International Students Assessment) sulle competenze degli studenti quindicenni, portato avanti dall'Ocse, l'Italia era in grave ritardo. Per citare solo un esempio, nel 2003, su 29 Paesi partecipanti all'indagine si collocava al 25 posto in comprensione della lettura, al 26 posto in matematica e al 22 in scienze. In pratica, solo la Grecia, la Turchia e il Messico risultavano peggiori di noi.
Di fronte a questo quadro, qualcosa bisognava fare. In realtà, anche chi protesta per l'attuale formula di valutazione non nega che essa sia in sé necessaria. Troppo a lungo la scuola italiana ha proceduto con un lassismo sucida, sulla base del tacito patto per cui uno Stato che le dava pochissimo, in compenso non le chiedeva nulla. Giusto esigere che, in un momento storico in cui, essendo venuto meno un orizzonte condiviso di certezze e di valori, è molto difficile chiedere al sistema scolastico una adeguata educazione, esso sia efficiente almeno sul piano dell'istruzione, garantendo una corretta trasmissione dei saperi. Un controllo su questo piano è dunque legittimo e anzi doveroso.
Il problema è costituito dalle modalità di questo controllo. E qui le perplessità avanzate nei confronti dei metodi dell'Invalsi appaiono ampiamente fondate. A giustificarle è, in primo luogo, il ricorso ai test a risposta multipla. In questi ultimi anni non solo per gli esami di Stato e per l'ingresso nelle facoltà universitarie a numero chiuso, ma anche per l'accesso al tirocinio e per il concorso a cattedra degli insegnanti, si è fatto sistematicamente ricorso a questo sistema "americano". Con tutto il rispetto per gli americani, non si può accettare che i criteri per valutare la qualità della formazione culturale di una persona siano gli stessi usati per gli esami di scuola guida. Siamo davanti a un tipo di esame che, per sua natura, privilegia la memoria, la prontezza di riflessi o semplicemente il caso, rispetto a una capacità di riflessione, a un'attitudine al ragionamento e a una preparazione di fondo che dovrebbero essere i veri obiettivi della scuola fin dalla primaria.
È dunque assolutamente necessario studiare altre forme di valutazione del lavoro svolto a scuola, magari accettando di discostarsi, così, dai famosi «standard europei» a cui da anni si cerca di uniformare il nostro sistema scolastico, dimenticando che i nostri studenti, quando si trovano a contatto con quelli di altri Paesi, non hanno nulla da invidiare ad essi (anzi...) quanto a livello culturale, pur dovendosi accontentare di strutture immensamente meno funzionali (per quelle sì l'invidia è motivata!).
Il ricorso ai test non è, però, il solo motivo di critica nei confronti delle prove Invalsi. Giustamente si fa osservare che la pretesa di valutare con un criterio di misura univoco livelli di rendimento scolastico che maturano in condizioni esistenziali e ambientali molto diverse, è una forma di falsificazione del lavoro della scuola. Basta pensare - e non è l'unica - alla disparità abissale tra istituti che lavorano in ambienti periferici, socialmente ed economicamente degradati, e altri che possono contare su un retroterra sociale ed economico di buon livello. In certi quartieri di Palermo, per fare solo un esempio, ci sono scuole elementari e medie che periodicamente vengono devastate e bloccate per settimane da vandali che a volte si scopre essere gli alunni stessi; dove è già un traguardo ambizioso quello di ottenere che gli alunni imparino le regole elementari della convivenza scolare; dove l'insegnare a parlare e, ancora più, a scrivere in italiano è come andare a raccogliere un fiore sull'Everest.
Che senso ha mettere sullo stesso piano e confrontare asetticamente i risultati ottenuti da docenti e alunni in uno di questi istituti con quelli di scuole inserite in quartieri residenziali?
Per non dire che, anche in queste ultime, ci sono classi dove la presenza di ragazzi disabili - specie adesso che i tagli hanno drasticamente ridotto la possibilità di ricorrere a insegnanti di sostegno - crea seri problemi al docente. Come non tenerne conto?
Ci vuole, allora un sistema di valutazione che, dando più spazio alla considerazione degli aspetti umani - che poi sono quelli genuinamente culturali - della vita della scuola, tenga conto non solo del punto d'arrivo, ma anche di quello di partenza del lavoro scolastico, nonché del contesto in cui esso si svolge. Altrimenti la pretesa di razionalizzare la scuola rischia di risolversi in una gigantesca prova di irrazionalità.