L'incarico a Enrico Letta semplifica le cose e al tempo stesso le complica. Le semplifica perché Letta è il più alto dirigente del Pd in carica dopo le dimissioni di Bersani. È di fatto il segretario reggente. La sua nomina impegna il partito al massimo livello. Non sono ammessi bizze e ostacoli di qualunque natura. È vero che dopo aver accettato l'incarico Letta, commentando le severe richieste di Alfano, ha detto: «Il governo non nascerà a tutti i costi», ma poco dopo Napolitano ha chiarito che il suo successo è «indispensabile» e che «una larga convergenza è la sola scelta possibile». È quasi impossibile che il presidente della Repubblica possa conferire ad altri un incarico se Letta dovesse fallire. In caso di insuccesso, resterebbero le sole elezioni anticipate.
Per l'Italia sarebbero un disastro, ma converrebbe rischiare a un Pd frantumato? Se il ruolo di Letta facilita la nascita del governo politico richiesto dal PdL, al tempo stesso paradossalmente la complica. Napolitano aveva suggerito a Berlusconi una delegazione autorevole, ma «leggera», senza impegnare in prima persona i vertici del partito, a cominciare da Alfano. Ma se il segretario del Pd, sia pure reggente, diventa presidente del Consiglio, come si fa ad impedire al segretario del PdL di fargli da vice, secondo le migliori tradizioni dei governi di grande coalizione? Sui ministri i due partiti principali possono gestire un disarmo bilanciato, favoriti dall'orientamento di Monti di proporre che due tecnici come i ministri Cancellieri e Moavero restino al loro posto. Ma il vertice dovrà essere necessariamente molto forte. Resta da chiedersi perché il presidente della Repubblica abbia scelto Letta invece di Giuliano Amato che fino a ieri mattina era certo dell'incarico e non ha nascosto il suo disappunto con i giornalisti che lo assediavano alla «vernice» della mostra su Machiavelli. Amato ha un cursus honorum di grande rilievo. Giorgio Napolitano lo stima moltissimo e lo avrebbe voluto come successore al Quirinale, Berlusconi era d'accordo, ma il Pd no. E si è visto com'è andata. Poi era deciso a nominarlo presidente del Consiglio. Berlusconi ancora una volta era favorevole, la Lega avrebbe fatto un'opposizione morbida pensando di aggiudicarsi una delle commissioni di garanzia (la Rai?). Scelta civica non avrebbe sollevato obiezioni, il Pd lacerato al suo interno non ha posto veti, né dato indicazioni. Si sa che nella pancia del partito ribollivano dissensi, ma ancora ieri mattina Amato era convinto di salire al Quirinale per ricevere l'incarico. Poi la doccia gelata. Perché? Ancora una volta il timore del «vecchio», il ricordo ossessivo del prelievo sui conti correnti, lo scatenarsi di Grillo che comunque si è scatenato ugualmente, la necessità di bilanciare un presidente della Repubblica quasi nonagenario con un presidente del Consiglio che abbia quasi la metà dei suoi anni. Si aggiunga che Napolitano ha visto nascere politicamente Enrico Letta e ha con lui significativi legami familiari. Se Amato era nel cuore la prima scelta del capo dello Stato, Letta era tutt'altro che una riserva. Il governo, dunque, nascerà entro la settimana. Non tutto filerà liscio, Berlusconi dagli Stati Uniti alzerà la posta, il Pd resisterà, ma venerdì - al rientro del Cavaliere dal summit informale di Dallas - gli ultimi scogli saranno superati. Per farlo, ciascun partito dovrà dal prova di grande responsabilità. Perché l'opinione pubblica attende fin dalla settimana prossima provvedimenti su lavoro e fisco che facciano intravedere finalmente agli italiani un po' di luce in fondo al tunnel.
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