Il presidente Napolitano ha affidato l'incarico a Enrico Letta e la crisi politica, che si trascina dal giorno delle elezioni, sembra alla conclusione. C'è da essere soddisfatti. Il Capo dello Stato ha fatto il miracolo, mettendo allo stesso tavolo forze politiche come il Pd e il Pdl che si combattono da vent'anni. Ricordiamo, però, che anche Togliatti trovò l'accordo con il maresciallo Badoglio nell'Italia distrutta dalla guerra e dal fascismo. Sarebbe quindi ingiustificabile se Enrico Letta non trovasse un terreno comune con Silvio Berlusconi.
D'altronde il presidente Napolitano nel giuramento di lunedì ha ricordato che anche in Gran Bretagna, patria del sistema maggioritario, i conservatori governano insieme ai liberali. Non sono più possibili scelte puramente identitarie. Da questo punto di vista la futura maggioranza rispetta pienamente la tradizione democratica. Non importa se Grillo (e non solo) la pensano diversamente.
Seconda considerazione. Finita l'epoca dei tecnici, tornano sulla scena i partiti. Quello Letta sarà un governo politico piuttosto che un governo del Presidente. L'incarico è infatti andato direttamente al vice segretario del Pd. Cioè al leader che, dopo l'uscita di Bersani, rappresenta il gradino più alto della gerarchia di partito. Sono state smentite le previsioni che davano Giuliano Amato in pole position. Nel cambio di sella hanno giocato diversi elementi. Certamente gli umori, non sempre favorevoli, che si respiravano all'interno del Pd. Ma anche il ricordo di quanto accaduto nel 1992. Anche allora il Paese si trovava al centro di una violentissima crisi economica sfociata poi nell'uscita della lira dallo Sme (il papà cieco dell'euro). Amato, presidente del Consiglio, aveva varato una manovra spiacevole e dolorosa: il prelievo forzoso dai conti correnti. Un episodio che ha lasciato un pessimo ricordo. Probabilmente un nuovo transito a Palazzo Chigi in un momento di emergenza poteva spaventare i risparmiatori. Meglio lasciar perdere. Così è stata scelta la via più diretta attraverso la nomina dell'esponente di punta del Pd.
Vuol dire che alla vicepresidenza del Consiglio ci sarà un'eccellenza del Pdl. Forse lo stesso Angelino Alfano. Non è un passaggio trascurabile: le principali componenti della maggioranza coinvolte al massimo livello nel governo. Un fatto senza precedenti che si presta a due letture antagoniste. Una è quella positiva: le segreterie non potranno dissociarsi dall'attività dell'esecutivo e questo dovrebbe renderne l'azione più incisiva. Ma è possibile il contrario: il Consiglio dei ministri, diventato la stanza di compensazione di spinte contrapposte, potrebbe essere condannato all'immobilismo o, comunque, alla scarsa incisività. Noi speriamo nella percorribilità della prima opzione. Purtroppo la seconda, se i partiti dovessere pesare troppo, non è da escludere.
Terzo punto. Il presidente Napolitano accettando la nuova sfida ha fatto prevalere lo spirito repubblicano. Speriamo che ci sia il medesimo rigore nella formazione del collegio. Pochi ministri e molto competenti che abbiano in programma un menù ristretto ma efficace. A cominciare dalla lotta all'emergenza sociale e alla disoccupazione (soprattutto giovanile). Ma, come sappiamo, il lavoro non si crea per decreto. Possono farlo le imprese creando ricchezza e le famiglie con i loro consumi. Per arrivare a questo risultato occorrono due cose: più flessibilità e meno fisco. Ogni altra strada sarebbe una gran perdita di tempo.
Ultima considerazione. Oltre all'economia l'altro punto qualificante dell'azione del nuovo governo è rappresentato dalla riforma costituzionale e da una nuova legge elettorale. Bisogna chiudere l'epoca del bicameralismo inconcludente dando più incisività all'azione del governo. Contemporaneamente bisognerà cancellare il Porcellum. Modifiche delicate che non si possono fare in pochi giorni. Soprattutto la prima. Nessun problema: il governo e il Parlamento si prendano tutto il tempo che serve. Ma facciano un buon lavoro. Gli italiani lo meritano.